Quando l’autodromo d’Italia volevano farlo a Gallarate (ma poi la spuntò Monza)
La proposta fu lanciata dai Club e dalla stampa specializzata a dicembre 1920, dopo i campionati assoluti di motociclismo in brughiera. Un'idea concreta che aveva tante ragioni
Il campo d’aviazione di Malpensa, solo militare, c’era già, da dieci anni e più. Ma nei lustri a ridosso della Prima guerra mondiale, la modernità trovava terreno fertile nella brughiera di Gallarate. E qui si pensò anche a costruire il primo autodromo d’Italia, che – se realizzato – avrebbe tolto a Monza il ruolo di “capitale” italiana dell’automobilismo.
(foto: corsa inaugurale di Monza, agosto 1922)
La proposta venne illustrata sulla stampa specializzata, per la prima volta, sul finire del 1920.
“L’Automobile Club di Milano, raccogliendo una felice iniziativa del Moto Club di Gallarate, vorrebbe che il terreno delle competizioni automobilistiche si snodasse appunto nella classica brughiera di Gallarate”, scriveva l’ingegner Bruno Sonnino sul giornale La Stampa Sportiva del dicembre 1920.
Se oggi associamo le corse automobilistiche, prima di tutto, ai circuiti chiusi (ma senza dimenticare i rally), agli albori degli anni Venti non era così: le competizioni più note si correvano ancora su strada. Il primo circuito chiuso del mondo, Brooklands nel Regno Unito, aveva aperto nel 1907, due anni dopo aveva aperto negli Usa la pista “ovale” di Indianapolis. Ma a parte questi due casi, non esistevano altri esempi di piste fisse.
In questo contesto ancora pionieristico s’inserì appunto la proposta del giornale La stampa sportiva “perché nasca la pista automobilistica in Italia”. L’idea di un circuito chiuso era tutt’altro che scontata e divideva gli appassionati – allora una élite – di sport motoristici. “Oramai – checché se ne dica dai denigratori – anche il folto pubblico degli «sportsmen» sente il bisogno di poter controllare le vere qualità di una automobile fuori dai percorsi di campagna”, lontano da incroci, passaggi a livello e altre insidie che facevano sì che i risultati fossero spesso “alterati”.
Del resto, “non credo vi sia chi non veda come – con un semplice parallelo fra ciclismo e motociclismo da una parte e automobilismo dall’altra – l’istituzione d’una pista per automobili non menomerebbe – anzi rafforzerebbe – il valore delle corse su strada”.
Insieme alla proposta di una pista nazionale, l’articolo della Stampa Sportiva sosteneva appunto una scelta geografica precisa, la “classica brughiera di Gallarate”, vale a dire quel terreno quasi incolto che si estendeva tra Gallarate – allora una delle quattro città principali della provincia di Milano, sede di sottoprefettura – e il Ticino.
Terreno poco produttivo dal punto di vista agricolo, ma per le stesse caratteristiche adatto ad un nuovo uso: «Anzitutto (argomento principe nel momento attuale) il terreno della notissima brughiera (che ha visto i più disputati «cross-country» del passato) si presterebbe con la minima spesa sia alla costruzione che alla manutenzione della pista», in quanto «compatto, lavorabile facilmente, molto impenetrabile e allo stesso tempo elastico», in grado di rendere «facilissimi» i lavori di sterro e riporto, dunque la costruzione e la manutenzione.
C’era poi l’elemento favorevole della tradizione sportiva della zona, legata all’equitazione e al podismo, nonché un certo spirito pionieristico simboleggiato dagli aerei che – in brughiera – avevano appunto già trovato casa a fianco degli squadroni di cavalleria.
Anche gli sport di motori si erano già affacciati in zona, con il Circuito motociclistico “delle valli del Ticino”, «che nel 1920 fu prova unica di campionato italiano su strada» racconta Marco Brogioli, appassionato di motori e divulgatore, che sta lavorando a una rievocazione del Circuito per il centenario.
La corsa si era tenuta il 5 settembre, su un circuito di 22 km (da ripetere dieci volte) che da Gallarate portava a Cascina Malpensa, di qui su lungo rettilineo proseguiva sino all’incrocio sopra al ponte di Oleggio a Lonate Pozzolo, per poi rientrare su Gallarate passando da Lonate, Samarate e Verghera (fu, quello, l’ultimo campionato a prova unica).
Forse anche gli incontri in quell’occasione avevano portato appunto l’Automobile Club di Milano a lanciare poche settimane dopo la proposta della pista automobilistica a Gallarate.
Tra gli elementi a favore si citava anche la posizione sul confine tra Lombardia e Piemonte, baricentrica rispetto ai maggiori produttori di automobili in Italia (per citare alcuni: le torinesi Fiat, Lancia e Diatto, le milanesi Alfa Romeo e Isotta Fraschini quest’ultima anche con fabbrica a Saronno; la genovese Ansaldo). E per questo La Stampa Sportiva contava sull’appoggio “del folto e simpatico gruppo dei «gentlemen» torinesi”.
Se allora l’auto era oggetto delle classi alte, certo non sfuggiva l’opportunità di fare dell’automobilismo uno sport di massa. Così che elemento di ulteriore sostegno all’ipotesi del “circuito di Gallarate” era anche la presenza di forniti mezzi di trasporto di massa: il tram a vapore da Milano ma soprattutto la modernissima ferrovia elettrica Milano-Varese (una rarità, in Italia e ancor più a livello europeo), con “circa 18 treni al giorno” complessivamente.
La storia e la realtà di oggi ci dicono che le cose andarono diversamente dai primi intendimenti: tredici mesi dopo l’articolo della Stampa Sportiva, sul finire del febbraio 1922, iniziavano i lavori dell’autodromo di Monza, su terreni di proprietà dell’Opera Nazionale Combattenti (che l’aveva ricevuta dal re Vittorio Emanuele III, desideroso di disfarsene anche per la cattiva nomea del luogo per casa Savoia).
Il circuito di Monza sarebbe stato inaugurato nell’ agosto successivo. E quello di Gallarate è rimasto solo un sogno. Se ne andarono poi anche cavalli e cavalieri e la storia della zona rimase – da allora – legata soprattutto al mondo dell’aviazione e all’aeroporto.
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