Andrea Marcolongo e le 99 parole da (ri)scoprire
Tornata in libreria con il suo terzo libro 'Alla fonte delle parole', è venuta a Gallarate a presentarlo in occasione di Duemilalibri. "Un racconto personale delle parole; riscoprirne le radici per esserne padroni, non schiavi"
Non è un dizionario etimologico, o un volume di linguistica. «È un lexikón, un ‘racconto di parole’». Si può definire così, con le parole dell’autrice Andrea Marcolongo, il suo nuovo libro Alla fonte delle parole, presentato giovedì 28 novembre alle ex scuderie Martignoni di Gallarate insieme a Francesca Torreggiani e l’assessore alla cultura Massimo Palazzi, all’interno della rassegna di Duemilalibri.
Marcolongo è da sempre appassionata di greco – su cui è incentrato il suo primo libro La lingua geniale, edito da Laterza – e di etimologie, il viaggio a ritroso che si compie alla ricerca delle radici delle parole, del loro sviluppo nel corso dei secoli. Dopo La misura eroica, la rivisitazione originale del mito degli Argonauti, arriva questo «libello» su cui, ammette l’autrice, ha lavorato per molto tempo: «Ho sempre amato andare alla riscoperta delle parole, ricercarne l’etimo. Molte di queste parole sono state mie da tempo; con altre, più ostiche, ho dovuto confrontarmi». Alla fonte delle parole come detto non è un dizionario etimologico. Non è ordinato alfabeticamente; le parole sono divise in gruppi di colori. O meglio, di sfumature: krâsis, glaukós, leukós. I colori che utilizzavano gli antichi greci: «Loro non classificavano i colori secondo una scala cromatica, ma secondo le percezioni di luce. Il mare, ad esempio, poteva essere indaco, rosso porpora, o trasparente, in base al momento della giornata in cui lo si osservava. Ciò mi ha permesso di creare delicate metafore per raccontare quello che sentivo attraverso le parole».
Pubblicato da Mondadori nella collana Strade blu – di cui fa parte anche La mattina dopo di Mario Calabresi, presentato poche settimane fa nel festival Glocal organizzato da Varesenews – Alla fonte delle parole contiene parole abusate, parole che diamo per scontato, parole che ci fanno paura. Parole che, in un modo o nell’altro, condizionano il nostro percorso di vita.
Eviteremo di riportare notizie sulla vita dell’autrice, che candidamente ammette di odiare le biografie: «Quando leggo un libro, non mi interessa niente dell’autore, di cosa ha fatto, come vive. Tutto quello che mi interessa è quello che scrive». Citeremo invece Italo Calvino il quale, in una lettera a Germania Bottino, scrisse:
«Io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere (quando contano, naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quello che vuol sapere e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura». (Calvino 1964)
(Ironicamente, l’estratto è riportato anche su Wikipedia, di cui le biografie sono parte fondamentale.) La citazione non è casuale. Calvino è uno degli scrittori menzionati nel libro e di nuovo nella serata organizzata da Duemilalibri come fonte d’ispirazione. Insieme a Calvino, «Sylvain Tesson, Jacqueline de Romilly (fu professoressa di greco antico all’École normale supérieure di Parigi; a lei la scrittrice ha dedicato il libro, ndr) Marguerite Yourcenar, Domenico Starnone, Elena Ferrante, Dante – una continua ispirazione. Nomi non correlati tra loro, certo. Quando scrissi il mio primo libro, pensavo di dover scrivere una bibliografia ricca e ben dettagliata. Ma in fondo non ce n’era bisogno: traggo ispirazione da svariati autori che scelgo personalmente. Il verbo leggere, per me molto importante e ovviamente trattato nel mio libro, deriva proprio da lego, che vuol dire ‘raccogliere’, ‘dire’, o ‘scegliere’. Leggere significa dunque scegliere: è uno dei miei etimi preferiti da sempre. Se ripercorso con cura, indica che senza parola non può esistere decisione alcuna».
Marcolongo cerca anche di smorzare l’eccessivo pessimismo («la sindrome dell’Apocalisse» la chiama) che aleggia attorno alla lingua italiana, da molti ritenuta in stato di perenne crisi per via del ricorso a neologismi o forestierismi: «Sappiamo che il greco antico era una lingua ricchissima di neologismi. C’erano parole create da poeti o scrittori e usate una volta sola. Eviterei un’eccessiva preoccupazione: la lingua si evolve come si evolvono le persone. Se si coniano nuove parole, è perché abbiamo bisogno di esprimere qualcosa di nuovo; altrimenti, non serviranno e spariranno velocemente. Molti neologismi italiani – aggiunge – derivano proprio dal greco. Come psiche, entrata nel nostro vocabolario solo nell’Ottocento. Fortunatamente ci è rimasta».
C’è effettivamente un allarmismo, spesso infondato, sullo stato di salute della lingua. Come cambiano le generazioni, cambiano anche le parole, senza doverne fare un dramma. L’importante è capire quello che rimane e che si tramanda, secondo il processo etimologico del tradimento. «Sono una grande traditrice. Da studiosa e amante della filologia l’ho sempre fatto. Dal latino tradere, ‘tramandare’, ‘trasmettere’: ha la stessa radice di ‘tradizione’. Non c’entra nulla dunque con le storielle da reality show. I testi, da millenni, vengono trasmessi e tràditi. A partire da Omero: non sappiamo se esistette veramente, ma sappiamo di per certo che non scrisse mai niente. L’Iliade e l’Odissea furono tramandate oralmente per secoli, prima di essere messe per iscritto da Pisistrato nel VI secolo avanti Cristo. Io, da filologa, amo scoprire come sono state tramandate le parole».
Di parole, nel libro, ce ne sono 99. Ma, come sottolinea l’autrice, «non è importante il numero, ma la piena consapevolezza di quelle che si usano. Quando pronunciamo una parola, stiamo dando un’indicazione di noi stessi. Se ne possono conoscere anche tre, ma l’importante è esserne padroni, non schiavi».
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