La guerra in Siria in mostra a Besnate, tra miseria e speranza
La guerra in Medio Oriente non è solo sinonimo di distruzione e violenza, perché tra le macerie delle città e delle vite segnate delle persone si può ancora leggere la speranza. A Besnate il fotografo Alessandro Annunziata e le volontarie Silvia Annunziata ed Elena Bolognesi hanno parlato delle loro due esperienze
Volti segnati dalla guerra, parti del corpo mutilate e sofferenza. Ma non solo: negli occhi dei civili fotografati si leggono anche gioia, speranza e una vita che ricomincia.
A quattro giorni dal rinnovo degli accordi con la Libia da parte del governo italiano, venerdì 7 febbraio a Besnate si è tenuta la conferenza – mostra “Rehab e Aleppo: immagini di guerra e di speranza dal Medio Oriente“: «Besnate, per una sera, apre le finestre sul grande mondo», hanno commentato il sindaco Giovanni Corbo e l’assessore alla Cultura Giuseppe Blumetti davanti ad una platea numerosa per ascoltare due esperienze diverse. Quella del besnatese Alessandro Annunziata, fotografo freelance che ha viaggiato negli ultimi anni tra la Turchia e il Kurdistan iracheno, e quella di sua sorella – Silvia Annunziata – e di Elena Bolognesi, partite la scorsa estate come volontarie per la Siria, ad Aleppo, accolte da una parrocchia del luogo.
«Sono partito per l’Iraq, il Kurdistan iracheno, quello turco e la Turchia nel 2018 mosso dall’interesse per la causa curda. Sono stato poi a Sulaymaniyah, nella clinica di Emergency che non solo cura i civili nell’immediato, ma si occupa anche di quello che succede dopo». Le foto – scattate con una Nikon D850 e un 24mm fisso – in mostra nella sala consiliare, sono state anche esposte in occasione dello scorso Festival della fotografia etica tenutosi a Lodi.
«La clinica, Rehabilitation and social reintegration centre, nata nel 1997, costruisce protesi alle gambe e alle braccia per i civili», continua il fotografo, «ma non si ferma qui: i pazienti ritornano per sistemare le protesi – che durano cinque anni – e, inoltre, vengono seguiti nel percorso di reinserimento lavorativo grazie alla costruzione di alcuni laboratori (di falegnameria, di pellame o di sartoria) dove vengono assistiti da volontari che insegnano loro un lavoro». Dopo i sei mesi di formazione, Emergency li aiuta a dare avvio a dei negozi: «Sono fondamentali per lo sviluppo e la rinascita sociale, ma anche famigliare: molti adulti vengono affiancati dai figli, che imparano il mestiere dai padri e dalle madri».
Ciò che stupisce, però, nei civili è sicuramente il loro desiderio di ricominciare a vivere: «Stando a contatto nella loro vita di tutti i giorni con i bombardamenti e la guerra, vivere, morire, perdere i famigliari o delle parti del corpo era all’ordine del giorno. Una bambina nel Rehab che aveva la protesi alla gamba aveva perso dei famigliari e aveva detto A me è andata bene, perché sono viva». Proprio per questo, spiega Annunziata, nei loro occhi si intravede la speranza in un futuro, nella possibilità di ricominciare dopo aver vissuto la distruzione della propria città, casa e famiglia. «L’obiettivo, con i miei scatti, era certamente far passare il lato tragico che vivono queste persone, ma loro sono i primi a credere in un futuro migliore».
Come si può spiegare la guerra in Siria? «Dalla rivolta popolare scoppiata dal basso nel 2011, si è trasformata prima in guerra civile tra i siriani e, successivamente, in una guerra che coinvolge sette eserciti diversi, in cui molti giovani siriani vengono mandati a combattere senza sapere per cosa combattano e contro chi combattano», risponde Elena Bolognesi. Un conflitto, dunque, di cui i siriani hanno perso il controllo. Inoltre, metà della popolazione è profuga interna ed esterna al paese: in Turchia ci sono 2 milioni di profughi siriani, mentre in Libano 1 milione e mezzo.
Cos’è dunque, la Siria? «Un paese che ha perso il suo tessuto sociale, si è disgregata territorialmente e nella sua compagine abitativa, dato che sono morti circa 500mila abitanti. La popolazione maschile dai venti ai quarant’anni o è in guerra, o è emigrata o è morta; ci sono moltissimi bambini nati non registrati e, dunque, non riconosciuti dal governo. L’elettricità viene e va in maniera intermittente».
«La scorsa estate siamo state tre settimane in Siria, ad Aleppo: la città, seppur liberata nel 2016, è ancora teatro di combattimenti. Siamo stati ospiti di una parrocchia e i frati ci hanno fatto conoscere la realtà della guerra, ma anche ciò che l’accompagna in termini di speranza», continua la volontaria Silvia Annunziata. In quelle strade, raccontano Silvia ed Elena, non si sono imbattute solamente nella distruzione, ma anche gioia, speranza e voglia di ricostruire «in una città economicamente immobile e dove non arrivano aiuti». Quelli che hanno deciso di rimanere in Siria desiderosi di far ripartire la vita loro e della propria città: «Questo dimostra che la vita è più forte della morte».
Come guarda a questa guerra un europeo? «Ciò che viviamo in Medio Oriente oggi è frutto degli accordi delle potenze europee al tramonto dell’Impero Ottomano (1918): hanno tracciato dei confini con il righello mettendo insieme gruppi etnici religiosi diversi», risponde Bolognesi, «queste guerre non sono loro: la popolazione lì subisce una guerra dove non ci sono buoni e cattivi, ma che tutti hanno giocato in maniera sporca e con violenza a trecentosessanta gradi contro i civili. Non possiamo illuderci che questa guerra sia lontana da noi e che non ci riguardi».
Andando a toccare la questione dei migranti, i tre commentano: «I migranti scappano da guerre e problemi creati dai paesi occidentali. Purtroppo noi ci stupiamo ancora dei rifugiati e dei migranti – persone come noi che si trovano in questa terribile condizione di dover scappare da un paese che non vorrebbero lasciare – e ci chiediamo perché vengano qui e non stiano, invece, a casa loro». E, facendo vedere le immagini di Aleppo distrutta: «Ma casa loro è questa».
«Negli ultimi tempi ho seguito le rotte dei migranti e ne ho incontrati tanti: un ragazzo siriano, incontrato in Turchia, mi ha detto di sognare l’Europa tutti i giorni. Quando gli ho raccontato dei respingimenti in Bosnia e a Lesbo, ho cercato di fargli capire che loro, i migranti, idealizzano l’Europa. Ma che fare, allora? Indietro non possono tornare; alcuni lo fanno, ma molti nonostante tutto quello che racconto loro desiderano ancora arrivare in Europa».
Il fotografo, allora, racconta che quando gli è stato risposto così ha provato a mettersi nei suoi panni, chiedendosi cos’avrebbe fatto lui nelle sue condizioni: avrebbe cercato lo stesso l’Europa? «Come mi disse una ragazza, non si sceglie di essere migranti, lo si diventa: nel momento in cui ci si lascia alle spalle la propria terra e i propri cari, si lascia anche la propria anima e si vive per sempre nel buio».
La mostra rimarrà in sala consiliare a Besnate e sarà possibile visitarla nei seguenti giorni:
Sabato 8 e domenica 9 febbraio, al mattino
In settimana in orari d’ufficio
Domenica 16 febbraio al mattino
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