Dalla moda alle mascherine, ma ci serve il “via libera” per riaprire l’azienda
La Emmegi2 di Vergiate potrebbe produrne mille al giorno e ha già materiale per 40 mila. Sono antigoccia su entrambi i lati, riutilizzabili per dieci volte e sanificabili con un ferro da stiro
Ci sono molti imprenditori, per lo più piccoli, che in questa fase drammatica di emergenza sanitaria si stanno chiedendo cosa possono fare per il loro Paese e al tempo stesso anche per la loro azienda. Una di queste è la Emmegi2 srl di Vergiate una piccola impresa di confezioni con un fatturato di 3 milioni di euro, di cui una buona metà destinati all’export, soprattutto Giappone e Hong Kong, 14 dipendenti e una presenza sul mercato che dura da oltre 60 anni.
Luca Braghini, seconda generazione in azienda, guarda sconsolato il suo magazzino pieno zeppo di vestiti. «Noi produciamo per la stagione estiva – spiega l’imprenditore – e i mesi di febbraio e marzo sono cruciali perché si concentrano gli ordini e le vendite. Abbiamo un milione di euro di merce ferma perché i nostri clienti o hanno chiuso o hanno disdetto gli ordini».
La prima preoccupazione è per i dipendenti che ormai sono come dei parenti tanto è il tempo che lavorano in azienda. Per loro c’è la cassa integrazione per Covid-19. Ma poi ci sono i fornitori e in una fase in cui manca la liquidità diventa difficile reggere nel tempo. Braghini, essendo un imprenditore, anziché piangersi addosso, si è dato subito da fare, cercando di riconvertire momentaneamente il suo business con quello che aveva in casa. Non è certo il primo e non sarà l’ultimo a dedicarsi alle mascherine, ma questa piccola impresa ha messo a frutto un concetto per anni abusato e utilizzato a sproposito: quello di rete.
Braghini ha contattato un fornitore di fiducia, la Miroglio Textile di Alba, che nel frattempo si è messa a fare mascherine e si è fatta spiegare il procedimento. Si è rivolto poi alla tintoria Helvetia di Cardano al Campo con cui ha studiato la realizzazione di un tipo di tessuto speciale. «Siamo partiti da uno scaldacollo che si usa per andare a sciare – racconta l’imprenditore – in tessuto jersey di viscosa leggero e gli abbiamo dato sia una spalmatura industriale, che lo rende antigoccia, sia il trattamento sanificante. Poi noi lo confezioniamo in doppio in modo che sia sanificato e impermeabilizzato su entrambi i lati. Insomma, lo “sputacchio” nelle nostre mascherine non esce e non entra. Inoltre sono lavabili e riutilizzabili per dieci volte e per sanificarle e ricostruire il film protettivo basta un colpo di ferro da stiro».
Le mascherine della Emmegi2 non sono destinate ai medici e agli operatori sanitari ma sono pensate per le persone “normali” che devono farne un uso quotidiano: in casa, quando si è in fila al supermaket per fare la spesa o nelle uscite consentite. Oggi potrebbero produrne mille al giorno, hanno in casa materiale per 5mila mascherine che diventano 40mila se si considera il materiale già pronto in tintoria. C’è però un problema che potremmo definire burocratico: l’azienda di Braghini non rientra nell’elenco dei codici Ateco contenuti nel decreto del 22 marzo e quindi lui e i suoi dipendenti non possono lavorare. Prima della chiusura, ne ha prodotto un primo lotto di duecento pezzi e consegnato personalmente i campioni al Politecnico di Milano per avere la certificazione richiesta dalla Regione Lombardia, ma non ha ancora ricevuto risposta. È andato anche in Prefettura, ma senza ottenere risultati.
«Guardo la merce nei miei magazzini – conclude Braghini – e so che a giugno sarà ormai invendibile. Per un piccolo imprenditore è importante ricominciare a produrre e noi in questa fase drammatica, osservando tutte le precauzioni richieste dal protocollo per contenere il contagio, potremmo renderci utili al Paese e al contempo avere una sostenibilità economica».
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