Terra di leggende il regno delle bocce. Il nervòsat
Si dice la calma sia la virtù dei forti ma Alfonso, che amava giocare alle bocce, era uno che si scaldava subito e troppo
La provinciale che, superato il passaggio a livello di Laveno, s’incammina spedita fra la rada boscaglia, traversata sovente da avventati caprioli, soli o in branco, con brevi rettilinei invitanti verso Cittiglio, indugia a contemplarlo consapevole che, prima di essere paese, si degna di offrire una serie di villette, distanziate dei giusti spazi, dai colori tenui, quasi sfumati, come volessero mantenersi lontane da qualsiasi esteriorità d’immagine, in ossequio alla tipica funzionalità delle campagne lombarde, refrattarie alle tinte vivaci, scintillanti e dense di toni pastello, quali le accattivanti alternanze colorimetriche delle località marine venete, come Chioggia o le abitazioni sulle isole della laguna.
Ecco, lì in una di quelle case senza eccessive pretese, ma comode e confortevoli, abitava l’Alfonso, un foresto che non si sapeva bene da dove venisse, essendo lui scontroso per natura e affatto propenso al dialogo né tanto meno a raccontare i fatti suoi. Alto, segaligno, sul viso scarno un naso leggermente adunco che gli conferiva l’aspetto di un rapace, poiana, gheppio o sparviere secondo le personali interpretazioni dei vicini, non era uso dare confidenza, anzi era fondamentalmente litigioso, tanto che gli era stato affibbiato il soprannome di nervòsat.
Infatti bastava un niente per farlo accendere come un falò preparato con sterpi secchi e durante una giornata ventosa: le fiamme della sua irritazione salivano immediatamente verso l’alto, sfrangiandosi e spargendo nugoli di scintille roventi intorno. Una volta esplodeva perché il vicino aveva osato bagnare la sua fetta di prato, non importa se inavvertitamente, un’altra era la musica del figlio dell’altro dirimpettaio tenuta a livelli di sonorità inaccettabili, un’altra … tutto andava bene per questionare e accapigliarsi, anche se solo a parole.
Alfonso amava giocare a bocce, nella zona era abbastanza facile, pochi chilometri e a Laveno c’erano i due campi dal fondo verde in quella specie di sotterraneo vicino alla stazione delle ferrovie nord, mentre a Brenta, c’erano due campi all’aperto, un po’ irregolari, è vero, ma fascinosi per l’ambiente cordiale e per l’intimo contatto con la natura della collina limitrofa.
Non era pensabile che diventasse un angioletto, allorché si lanciava in sfide interminabili per le sue adorate bocce, anzi. Bastava veramente poco, una giocata fortunata dell’avversario, una supposta ingiustizia arbitrale, oppure qualche coincidenza non proprio favorevole durante la partita, per farlo partire a snocciolare une serie impensabile d’improperi contro tutto e contro tutti, pur che qualcuno potesse diventare un bersaglio. Nervòsat era e nervòsat rimaneva.
C’era poi un atteggiamento particolare che lo riempiva d’orgoglio, al quale ricorreva sempre molto spesso, non appena l’estro lo sorreggesse: il giocare con i piedi. Aveva imparato a far scorrere la boccia, che avrebbe dovuto essere impugnata, accompagnandola con la suola affinché si avvicinasse, poi, con abile tocco, sotto, per mezzo della punta della scarpa la faceva sollevare di quel tanto da poterla afferrare al volo: “così non devo continuamente chinarmi a raccattarla”, affermava con convinzione.
Un bel giorno – si fa per dire, non lo sarebbe stato per niente – si trovò a disputare un quarto di finale a Brenta contro un avversario ostico che non voleva certamente lasciargli via libera. L’Alfonso conosceva bene i campi, intorno c’era uno stuolo, se non di amici almeno di conoscenti, sentiva di essere a casa sua e mai e poi mai avrebbe accettato di perdere l’incontro contro chi veniva “da fuori”.
La partita era avvincente, punto a punto fin dall’inizio tanto che, dopo oltre un’ora di competizione si trovavano ancora pari: 9-9. Durante la mano successiva l’antagonista non riuscì, con tre bocce, a togliere il punto all’Alfonso: ci riuscì con l’ultima. Il nostro aveva ancora tre bocce, eliminando quella del punto non solo avrebbe potuto contare sul suo già in terra, ma avrebbe avuto la possibilità di concludere l’incontro con le ultime due bocce 9 + 3 = 12! Si mise in posa per la bocciata inevitabile, si sentiva sicuro, era un bocciatore più che discreto e quella biglia era quanto mai invitante. Si lanciò con la punta della scarpa la boccia nelle mani, prese accuratamente la mira, poi scoccò: boccia colpita perfettamente e partita a un passo. L’avversario, però, denunciò: “Boccia bassa”. L’arbitro si avvicinò e confermò, la bocciata doveva essere annullata!
A quel punto che nervòsat sarebbe stato se avesse accettato supinamente il verdetto? Cominciò ad esplodere in invettive impronunciabili, sostenendo che la bocciata fosse valida, andò a segnare con le dita per terra per indicare dove avesse battuto la sua boccia. L’arbitro contestava l’interpretazione dicendo che il segno da considerare fosse un altro: un bailamme incredibile, dove ognuno diceva la sua pretendendo di possedere la suprema verità.
L’arbitro fu irremovibile e la boccia venne annullata. L’Alfonso aveva ormai perso la capacità di ragionare, sbagliò le ultime due bocce che aveva a disposizione e, alfine, perse la partita. La rabbia era all’eccesso – era o non era il nervòsat? -, si avvicinò alle bocce e invece di tentare il solito giochetto con la punta della scarpa, affibbiò un tremendo calcio all’agglomerato che si era formato alla fine dl campo. L’ululato che ne seguì sembra fosse stato sentito ben oltre il monte Lema e l’Alfonso crollò a terra, dovette essere trasportato con l’autoambulanza nel vicino ospedale di Cittiglio, dove venne ingessato, caricato su una sedia a rotelle e trasferito a casa con una prognosi di almeno 90 giorni per le fratture multiple alle dita del piede.
Non è dato sapere con esattezza come trascorse quei mesi d’immobilità, alcuni dicono che litigasse con veemenza con il gatto del vicino che osava sconfinare nel suo giardino: se uno nasce nervòsat, nervòsat rimane: non cambierà mai.
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