Lidia Menapace, partigiana senz’armi che scelse la non violenza
Scomparsa nei giorni scorsi, Lidia Menapace aveva il pacifismo e la nonviolenza come valori di riferimento. Gli stessi che negli anni Sessanta spinsero un manipolo di giovani a lottare per l'obiezione di coscienza
Una partigiana senz’armi, se non una bicicletta. Lidia Menapace aveva scelto di aderire così alla Resistenza, in un audace equilibrio tra il proprio sentimento nonviolento e la necessità di cacciare l’invasore nazista, finire la guerra, farla finita con il fascismo.
Il suo impegno politico l’ha portata fino in Parlamento, eletta nelle file di Rifondazione Comunista. Una convinta adesione, nel nome del pacifismo e dell’amore per gli ultimi, negli anni della adesione di Rifondazione all’idea della non-violenza (Menapace ne scrisse anche con Fausto Bertinotti e Marco Revelli). Non è stata messa tra parentesi, ma neppure pienamente riconosciuta, la sua lunga parabola dentro al movimento cattolico, dalla Resistenza moderata alla Fuci, alla Università Cattolica, inquieta fucina del Sessantotto.
Questo percorso è ben ricordato oggi dal Centro Studi Marcora, con un intervento della prof.ssa Margherita Zucchi, allieva di Lidia Menapace alla Cattolica, ricercatrice, studiosa e scrittrice di testi sulla Resistenza.
«Quando don Gek (don Girolamo Giacomini, ndr) accettò di farmi entrare in contatto con la resistenza organizzata, dichiarai che non avrei portato armi (la resistenza è stata un movimento armato non militare, e c’era grande libertà anche nel fare obiezione di coscienza all’uso delle armi). Ero favorevole ai sabotaggi e allora trasportavo l’esplosivo, ero favorevole alla formazione di una coscienza antifascista e allora distribuivo la stampa clandestina», raccontava Menapace nel 1999.
Nei panni della staffetta “Bruna” (per la formazione Remo Rabellotti di Novara, parte del Raggruppamento Divisioni Patrioti Alfredo Di Dio) si muoveva tra Novara, sua città natale, e la Val d’Ossola: «Era giovanissima e si distingueva per la sua attività instancabile, in anni vissuti sotto i bombardamenti, aveva accettato di fare la staffetta in bicicletta pur con il terrore di poter incontrare i nazisti o i fascisti lungo la strada. I messaggi viaggiavano sulle sue gambe e nella sua testa: niente messaggi scritti, tutto doveva essere memorizzato e trasmesso a
voce per evitare che durante i controlli ai posti di blocco venisse scoperta».
«Nonostante l’obiezione di coscienza all’uso delle armi – ricorda Margherita Zucchi – Lidia venne congedata come sottotenente con il riconoscimento di “partigiano combattente”, al maschile ovviamente, da qui il suo rifiuto e il suo antimilitarismo, pur essendo la prima a sostenere che le donne nella Resistenza non furono solo staffette come lei, rimasta “partigiana” per tutta la vita. Con quel titolo rifiutò anche il compenso monetario»
Dopo la guerra si laureò all’Università Cattolica del Sacro Cuore, a 21 anni, con il massimo dei voti e dopo la guerra si impegnò nella Federazione Universitari Cattolici Italiani. Nel 1964, candidata con la DC, venne eletta prima donna nel Consiglio Provinciale di Bolzano, dove si era trasferita dopo il matrimonio con il medico trentino Nene Menapace (morto nel 2004), «diventando assessora effettiva per affari sociali e sanità» ricorda ancora Zucchi, che fu sua allieva quando divenne docente di Lingua italiana e metodica degli studi letterari alla Cattolica.
«Noi studentesse in Università Cattolica a Milano portavamo il grembiule nero e la nostra professoressa di lingua italiana ci spiegava l’uso del linguaggio nel verismo, gli elementi di rottura con le correnti letterarie precedenti… Erano così belle le sue lezioni, che si poteva lasciare a terra il peso dello studio e librarsi con le ali del puro piacere dell’ascolto e della lettura, attraverso una chiave d’accesso di rara evidenza e spirito critico».
L’incarico non le venne rinnovato nel 1968 a causa della pubblicazione del documento “Per una scelta marxista”, Menapace si staccò dalla Dc e si avvicinò al Partito Comunista Italiano, poi fu vicina al primo nucleo del Manifesto, che rompeva con l’autoritarismo del Pci e insieme in polemica con l’Urss che invadeva la Cecoslovacchi (tra i primi promotori del Manifesto, in provincia di Novara, anche Gino Vermicelli). Nel 1973 fu tra le promotrici del movimento Cristiani per il Socialismo, negli anni in cui una parte del mondo cattolico stesso voleva scrollarsi di dosso il collateralismo e l’opzione unica dei cattolici in politica.
In quegli anni cresceva anche l’obiezione di coscienza, in cui i cattolici ebbero un ruolo centrale. Dal primo obiettore – Giuseppe Gozzini da Cinisello Balsamo, 1962 – al caso del fiorentino (assistente di La Pira) Fabrizio Fabbrini, che innescò la celebre, rumorosa polemica toscana, con l’intervento di Padre Balducci e la successiva controversia tra i cappellani militari e don Milani.
Gli obiettori furono sostenuti sul piano parlamentare solo dal Psi e dalla sinistra Dc, mentre il grosso della Dc e il monolitico Pci erano nettamente contrari, per ragioni diverse (gli uni temendo il primato della coscienza e la componente conservatrice della chiesa italiana, gli altri fedeli all’idea di “esercito di popolo”). Fu soprattutto una battaglia di singoli, capaci di trascinare gli altri: i primi obiettori, quelle singole figure di sacerdoti, infine pochi coraggiosi esponenti politici: nel 1972 grazie a loro si arrivò alla prima Legge sull’obiezione, nata dalla confluenza tra il socialista Luigi Anderlini e il democristiano Giovanni Marcora, appunto, già comandante “Albertino” nelle formazioni del Raggruppamento Di Dio, lo stesso di Lidia Menapace. Partigiani per necessità, ma con l’aspirazione a dimenticare le armi.
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