70 anni fa l’alluvione del Polesine. Una storia di dolore, emigrazione e riscatto
Dopo giorni ininterrotti di pioggia su tutto il Nord, il 14 novembre il Po ruppe gli argini e devastò la pianura Rovigo. Migliaia di veneti sono emigrati nel giro di poco anche a Varese e nell’Alto Milanese: una comunità ancora riconoscibile che adesso si racconta
«Si sentiva il rumore dell’acqua, come un tuono lontano. Sono scappata in bici, io davanti in bici e l’acqua dietro».
Il 14 novembre 1951, dopo giorni di piogge, gli argini del Po crollano ad Occhiobello, di fronte a Ferrara: l’intera pianura del Polesine viene allagata, migliaia di persone in provincia di Rovigo perdono la casa, una terra già povera viene messa in ginocchio.
Fu un fatto epocale, che diede il via ad una alla più intensa migrazioni interna: decine di migliaia di veneti del Polesine si trasferirono in altre zone, molti anche in Lombardia.
È una storia di riscatto, per molti veneti partiti senza nulla dalla loro terra e divenuti, anche in provincia di Varese, un motore del “boom economico”, fossero operai, muratori, piccoli imprenditori, ambulanti nei mercati. Ma è anche una storia di accoglienza, non sempre facile e lineare, che coinvolse anche le comunità locali.
(L’immagine di apertura, è stata scattata dall’insegnante e fotografo Vittorino Vicentini)
La notte che il Po ruppe gli argini
A ottobre del 1951 aveva iniziato a piovere ininterrottamente e quasi a metà di novembre non aveva ancora smesso: allagamenti e frane toccarono e fecero morti in varie località d’Italia (ad esempio, in provincia, con l’inondazione del centro di Gallarate, invaso dal torrente Arno).
Il 14 novembre l’onda di piena del Po arrivò tra Rovigo e Ferrara: dopo alcuni limitati smottamenti alle 19:45 del 14 novembre l’argine maestro del fiume ruppe a Vallone di Paviole, poi alle 20 a Occhiobello, in due punti distinti.
Bruna Rizzi, che oggi abita nel quartiere Arnate di Gallarate, partì in quelle ore in bici con una sorella e un fratello: «Erano giorni che ci si aspettava succedesse qualcosa. Scappammo in bici verso il Canal Bianco, che era più in alto, mentre noi abitavamo in una zona più bassa dell’argine del Po». Bruna veniva da Fiesso Umbertiano, il paese che pagò – casualmente – il prezzo più alto, quando un camion di sfollati si rovesciò a Frassinello Polesine e fu travolto dalle acque: Fiesso pianse così 84 vittime, dei 101 morti ufficialmente registrati.
La famiglia di Bruna Rizzi prima dell’alluvioneLa massa d’acqua incontrollabile e violenta travolse edifici, uccise il bestiame, spazzò via ogni cosa. E dilagò nel delta, nelle terre che l’uomo aveva strappato al mare, perdendo forza ma trasformando decine di chilometri quadrati di terra in una distesa immobile che rimase tale per mesi: «L’acqua è arrivata ore dopo che a Occhiobello, raggiungendo un’altezza tre metri-tre metri e mezzo, fino al secondo piano. La nostra casa però ha resistito» racconta Nestore Marangon, classe 1942, che da metà anni Cinquanta da Porto Viro sul delta si è trasferito ad Arsago Seprio, a seguito di quella tragedia.
Nestore, il tipografo del Polesine che stampava il giornale della Pro Patria
«Due ore prima sono venuti a dare l’allarme» ricorda Graziella Ottoboni, che abitava a Porto Tolle, altro paese sul delta. «Siamo andati sull’argine, mio papà ha portato su anche i maiali per metterli in salvo». Molti, come la madre di Nestore Marangon, ci sarebbero rimasti per mesi, con l’acqua tutto intorno.
Gli sfollati, gli “esploratori”, gli emigrati
I primi ad arrivare in provincia furono gli sfollati veri e propri, quelli che avevano perso ogni cosa.
A Gallarate furono accolti ad esempio alla Colonia Elioterapica di villa Calderara, sulla collina sopra il quartiere di Cedrate: ne rimane traccia nel bollettino parrocchiale del rione gallaratese. «Sono quasi tutte mamme coi loro figli. Provengono dal Polesine e precisamente da Villadose, Bosaro, Sant’Apollinare, Pezzoli, Mardimago, Cavarzere, Borsea e Lama» si legge nelle pagine ingiallite del giornale della parrocchia di San Giorgio.
Quando Gallarate accolse a Cedrate i veneti profughi del Polesine
Altri duecento sfollati arrivarono subito a Busto Arsizio, trecento a Legnano.: qui ad esempio furono accolti per lungo tempo nell palestra delle Scuole elementari Carducci di Legnano.
Il trasferimento in Lombardia fu spesso anticipato da una avanguardia ridotta, di solito i maschi adulti che partivano come “esploratori” e garantivano il sostentamento delle famiglie.
Bruna Rizzi emigrò da sola al fianco del padre, muratore, approdando a Ferno vicino a Malpensa, poi seguirono i numerosi familiari.
Bruna, dal paese martire di Fiesso alla zona di Gallarate. “Arrivai con mio papà”
Così fece anche il padre di Luigi Barion, volto noto a Varese: «Chiamato da amici di Varese che si erano già trasferiti aprendo una trattoria, mio padre è salito a Varese nell’autunno del 1951. Ha trovato un posto da parrucchiere a Binago, poi ha cercato e trovato una casa a Gavirate: noi siamo arrivati nel 1954». In altri casi i percorsi furono meno lineari: «Siamo venuti via l’anno dopo, perché io ero sempre malata e il dottore ci ha detto di andare in un posto più salubre» racconta ancora Graziella Ottoboni. «Prima siamo andati a Serravalle Sesia, dove c’erano i fratelli di mio padre. Siamo stati dieci anni, dopo siamo venuti qui in Lombardia».
A volte i polesani emigranti trovavano un appiglio da concittadini che già si erano stabiliti in Lombardia, come fece a Busto Arsizio Rimes Ferracini, che portò nella città lombarda anche la sua passione per i burattini, forma di divertimento popolare che suo figlio Elis porta in giro per teatri e scuole ormai da diversi anni (qui un articolo del 2012 sulla storia di Rimes scritta da Elis).
Non mancarono talvolta reazioni ostili o semplicemente rudi nei confronti degli emigranti che arrivavano con poco o niente, che parlavano spesso in dialetto. «Ci chiamavano terroni del Nord» dice ancora Barion, comunque con un filo di ironia. «Ma il buono e il gramo c’è sempre, tra i varesini come tra i veneti», un concetto che ritorna anche nei racconti di altri polesani approdati nel Varesotto.
Luigi Barion, dal Polesine a Varese dopo l’alluvione del ’51: “Oggi parlo il dialetto bosino”
La solidarietà dal Varesotto
La solidarietà coinvolse anche alpini, scout e altri volontari che dal Varesotto si recarono nel Polesine, nelle settimane dopo la tragedia ma anche a distanza di anni, per aiutare la ricostruzione di una terra che aveva perso molti dei suoi abitanti più giovani emigrati altrove (il Polesine passò in dieci anni da 358mila a 278mila anime).
Allora la società era strutturata e questo aiutò la reazione, sia in Polesine sia nei luoghi dell’accoglienza: c’erano sindacati, associazioni, partiti che avevano migliaia di iscritti.
Nel clima di contrapposizione della Guerra Fredda, l’aiuto era anche un campo d’azione e di militanza: alcune iniziative erano avviate dalla Chiesa e dalla Dc, altre dai partiti della sinistra (PCI e PSI) e associazioni di quell’area. Si attivarono così anche le Camere del Lavoro della Cgil, l’Anpi, le cooperative.
Ancora sul finire degli anni Sessanta a Badia Polesine c’era un campo di lavoro in cui giovani studenti (“universitari costruttori”, alcuni dalla provincia di Varese) d’estate costrurono una casa di riposo.
70 anni fa la città di Saronno si mobilitava per soccorrere gli alluvionati del Polesine
Muratori e “villaggi veneti”
L’arrivo dei veneti costruì anche un po’ l’aspetto delle città e dei paesi: eredi anche di una tradizione contadina di autocostruzione, molti edificarono la propria casa su terreni isolati, dando il via al fenomeno delle periferie di villette.
«Il tono più elevato della vita, le agevolazioni governative, la mancanza di abitazioni hanno spinto molti [veneti] a costruirsi la propria casetta» ricordava nel 1957 don Giacomo Castiglioni, parroco di Cedrate, descrivendo il radicarsi dei nuovi arrivati.
«Mio papà era muratore e appena siamo arrivati ha costruito una casa, quando sono arrivati gli altri della famiglia l’ha venduta e siamo andati a vivere in un’altra. E così via» ricorda ancora Bruna Rizzi (alcuni parenti sono ancora costruttori, con l’omonima impresa). Anche gli emigrati del Polesine andarono poi a volte ad abitare nei “villaggi veneti” che andarono costituendosi fuori dal centro dei paesi, un fenomeno – i quartieri “regionali” spontanei – quasi unico nella storia urbanistica italiana.
Una storia di emancipazione
La vicenda del Polesine racconta anche dell’integrazione delle diverse ondate migratorie che sono passate in Italia: delle diffidenze di alcuni e della generosità di altri, dell’iniziale mantenimento di stretti rapporti tra gli emigranti (come appunto nei “villaggi veneti”), dell’emancipazione attraverso il lavoro che consente di superare gli stereotipi, di una nuova appartenenza che si intreccia con quella d’origine.
«Quando sono andato a scuola qualche difficoltà l’ho avuta perché noi a casa parlavamo in dialetto» dice ancora Luigi Barion, classe 1947, che arrivò bambino. «Oggi invece leggo e scrivo anche in dialetto varesino».
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