Gamberi e ingegneri, mulini e ciminiere: un libro racconta l’Arno “motore” della città di Gallarate
La storia e il ruolo di sviluppo del torrente è al centro del nuovo volume curato dalla Studi Patri.
Le sue acque sono state feconde, fonte di crescita e sviluppo nei secoli. Ma anche devastatrici, nelle alluvioni, e avvelenate dalle industrie. Oggi – che per molta parte dell’anno è in secca – è prezioso ripercorrere la storia dell’Arno, il torrente che attraversa Gallarate e la zona circostante e che spesso viene (impropriamente) citato come Arnetta: la storia del torrente e le storie tutto intorno si possono scoprire con il volume “Il torrente Arno e Gallarate”, edito dalla Società Gallaratese degli Studi Patri. Un volume ricco di studi di 271 pagine ricco di approfonditi studi, godibile per tutti, nel ritratto che fa della storia della città.
Il libro è «il primo studio organico sul torrente Arno e il rapporto con la città di Gallarate, che è il focus specifico del volume», spiega Matteo Scaltritti, del direttivo della Studi Patri, presidente ai tempi (2016) in cui l’istituzione culturale promosse una mostra dedicata all’Arno, i cui materiali sono stati il primo spunto da cui è partito il nuovo libro.
I diversi studi, riversati in capitoli, ripercorrono la storia dalle citazioni nei documenti di poco precedenti al Mille fino alle ultime alluvioni degli anni Novanta e ancora oltre, con il capitolo – curato da Emma Zanella – sulle “sperimentazioni artistiche intorno all’Arno” nell’ultimo ventennio
Il “fluviulus” che attraversa il Gallaratese per secoli ha fatto danni con le sue acque irregolari e soprattutto a causa delle sue anse e dei suoi rivolgimenti, ben testimoniati anche dalle rappresentazioni cartografiche raccolte da Massimo Palazzi e da Lorenzo Guenzani. Il borgo di Gallarate era esposto soprattutto a causa della “buca del Vallone”, la curva del letto del torrente che stava dove oggi sono piazza Risorgimento e il Teatro Condominio: di qui l’acqua finiva a invadere – almeno un paio di volte ogni secolo – il borgo, collocato a un livello leggermente più basso (lo si coglie ancora oggi, appena, scendendo da via Postcastello o da via Verdi verso la piazza Libertà o da via San Francesco a piazza Garibaldi).
L’arazzo settecentesco con la piazza gallaratese allagata. La chiesa ritratta è la collegiata quattro-cinquecentesca poi abbattuta nell’Ottocento e sostituita dall’attuale, più ampia basilica. Identico è invece il campanileLa regolare maledizione delle alluvioni viene ricostruita, nella sua secolare scansione, dallo studio di Matteo Scaltritti. Dalle vaghe fonti d’epoca medievale alle cronache più dettagliate come quella del 1732, quando al 24 luglio l’inondazione portò “incredibile danno” ed “eccidio di 14 persone”, con la chiamata successiva – a settembre – agli uomini di Crenna per contribuire a pulire il borgo dal fango che ancora fermentava nelle vie. Il racconto di Alberto Guenzani porta fino al Novecento, con il ricordo delle sirene delle fabbriche che suonano per annunciare il pericolo nel 1951, o con le foto delle limacciose e gonfie acque nel 1995, in via Monsignor Macchi, mentre un vigile urbano vigila sull’imbocco del sottopasso della ferrovia, uno dei punti rimasti critici nel tempo.
L’alluvione del 1910, la prima testimoniata da fotografieDi fronte alle alluvioni, dal Settecento si moltiplicano gli sforzi per imbrigliare, deviare, ammansire il fiume. Nel libro compare ad esempio un inedito “studio idrogeologico settecentesco, da cui viene estratto anche un rilievo del 1760-61, conservato all’archivio di Stato di Milano”, curato da uno dei più rispettati studiosi del tempo, il gesuita di Brera Antonio Lecchi e il matematico barnabita Francesco De Regi.
La rettifica del torrente rimane elemento centrale nei progetti urbanistici successivi, come quello ottocentesco di Marino Croci, offrono uno sguardo sulla città che cambia, ricco di spunti anche per chi non conosce la storia gallaratese (ad esempio: nel 1852 si pensava anche a un lavatoio pubblico in centro al borgo e a una galleria vetrata, come ne esistevano – in Italia – solo a Milano). Solo tra fine Ottocento e inizio Novecento la deviazione risolverà le due principali criticità, la “buca del vallone”
Il piano redatto da Marino Croci, conservato dalla Studi PatriSe le alluvioni prima e l’inquinamento dopo hanno fatto assumere all’Arno un ruolo un po’ sinistro nell’immaginario del cittadino gallaratese, il libro restituisce anche tutta l’importanza del ruolo svolto dal torrente, tra rogge, prati irrigui dove oggi c’è la città (come nel caso dei Prati Palazzi, che danno il nome a una stradicciola vicino a Corso Leonardo Da Vinci), tanti mulini più o meno funzionanti a seconda del flusso d’acqua (come il mulino Tarabara, in territorio di Albizzate, il cui nome alluderebbe al tirar tardi per le lente operazioni).
Dai mulini si e poi passati al maglio delle officine, poi alle industrie, meccaniche e tessili, la cui crescita ha comportato l’inquinamento delle acque per tutto il Novecento.
Ma c’era un periodo in cui il fiumiciattolo era frequentato anche per la pesca di pesci e (soprattutto a monte di Gallarate) gamberi, mentre le acque erano usate dalle lavandaie, come racconta uno dei diversi contributi firmato da Franco Bertolli. Ma le acque diventano anche uno strumento – per il parroco di Cedrate – per disperdere la folla di un Rave party ante litteram, una festa spontanea nei prati intorno alla chiesetta del Lazzaretto, in un gustoso aneddoto di metà Ottocento.
Acque dell’Arno ma anche quelle del Sorgiorile, il piccolo affluente che scende dalla zona dei fontanili, e quelle dell’Arnetta, il canale derivato dal torrente che attraversava il borgo – sull’asse delle attuali vie Verdi e don Minzoni – e serviva da fogna e scarico per le macellerie che un tempo stavano di fianco al teatro Condominio, nella odierna piazzetta Guenzati-via Manzoni. O ancora le acque del redefossi, il canale intorno al borgo che un tempo fiancheggiava le mura, poi abbattute e sostituite – in qualche modo – dal torrente Arno come limes, confine, del borgo (a Gallarate i “ponti” svolgono la funzione che altrove hanno le porte, anche nella toponomastica cittadine).
Il tratto a ridosso del “ponte di Cardano”Nelle sue mille trasformazioni, di forma e di funzioni, l’Arno davvero costituisce «una porzione importante della nostra identità», come scrive Pietro Cafaro nella premessa al volume, che è il numero 139 della Rassegna gallaratese di storia ed arte (con una bella sovracoperta che rappresenta il rilievo del 1760-61). A proposito di arte, il volume è concluso anche da un capitolo dedicato alle rappresentazioni dell’Arno in disegni, litografie e quadri nel Novecento, finiti a perpetuare nelle case dei gallaratesi l’immagine del torrente e del suo – tutto sommato – dolce rapporto con la città.
L’Arno torna anche nella produzione letteraria, raccolta in un capitolo da Beniamino Bordoni, nel tempo divenuta una delle mille fonti documentarie cui attingere, che testimoniano come il “fluviulus” sia sempre stata una presenza con cui gli abitanti della zona hanno anche una connessione sentimentale. Migliaia di uomini, donne e persino bambini che hanno lasciato una loro traccia nella Storia, dalla prima pergamena del 974 d.C. che per la prima volta cita il torrente e il borgo di Gallarate, fino agli alunni delle scuole di Samarate che a inizio anni Novanta del Novecento raccolgono i racconti dei nonni, di quando nell’Arno si pescavano i gamberi.
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