Il camper
di Gian Paolo Zoni
Il mostro di Gila è nascosto dietro a una pietra che ricorda un’incudine. Piegato sulle ginocchia lo stuzzico con un legno di ocotillo.
«Sceriffo! Non lo infastidisca troppo, non vorrei poi fare una telefonata a sua moglie». Consiglio, non richiesto, di Saul il mio vice. E per come stanno andando le cose con Wanda, forse non sarebbe scontenta.
Allungo il braccio per toccare la grossa lucertola velenosa con il ramo rinsecchito. Qualsiasi cosa pur di non pensare al camper.
Stamane c’è stata una chiamata in ufficio. Un tizio farfugliava di un caravan nel deserto. «Dovete venire subito. Subito!».
Il tizio c’è ancora, è seduto sopra un masso piatto, a una ventina di metri da noi, i suoi due cani accanto, accaldati e con la lingua penzoloni. Hanno bisogno di bere. Ma il tizio ha altro su cui rimuginare.
Ha gironzolato per tre giorni camminando su rocce roventi all’ombra dei rari saguari, un survivalista convinto, non capisco certa gente.
Qui non c’è campo, lui ha un telefono satellitare, è con quello che ha chiamato, fornendo anche le coordinate di questo luogo maledetto al centro del nulla, diverse miglia a est dalla Statale 29.
Il veicolo è un vecchio Hymer del’92, beige. I vetri e tutte le parti metalliche sono stati verniciati di nero opaco con delle bombolette spray. Le abbiamo trovate lì intorno, vernice anti riverbero.
Ha le ruote di destra squarciate. Con un coltello, forse lo stesso che è stato usato là dentro. Pende tutto da una parte. Una pozza si è formata sotto il pianale, sembra olio motore, è ricoperta di mosche. Il mostro di Gila le ignora, ignora anche la pozza, non me. Qualsiasi cosa pur di non pensare al camper.
Saul ha provato a salirci. Gliel’ho impedito. Ha protestato un po’, è giovane, ma deve aver notato qualcosa nel mio sguardo, ha desistito in fretta, non è da lui. Si è limitato a togliersi il cappello e a sbatterselo sui pantaloni cachi.
Aspettiamo la polizia statale, probabile si faccia vedere anche il Bureau. Ritengo di essere stato abbastanza chiaro alla radio. Venite tutti e venite pronti.
Il sole è al suo apice. Mi alzo, e le ginocchia scricchiolano. Il rettile dalla lingua blu non mi toglie gli occhi di dosso. Faccio due passi verso il tizio coi cani. Farfuglia ancora.
«Dio dov’eri? Dov’eri?»
Il più lontano possibile, penso io, questo è un posto da cui anche l’Onnipotente si tiene alla larga. Vedo Saul scendere dal camper. Quell’idiota non mi ha dato retta. Barcolla, della bava gli cola dalla bocca spalancata. Mi avvicino.
«Ehi ragazzo!», gli dico prendendolo per un braccio, ma è come parlare alla luna, il suo sguardo mi attraversa quasi fossi nebbia.
«Qui Dio non c’è», sussurra. Poi urla, e il tizio survivalista si mette a strillare anche lui e i cani fanno altrettanto, e io, un cinquantenne che credeva di averle viste tutte, mi unisco al loro grido.
Racconto di Gian Paolo Zoni (www.ilcavedio.org), ispirato alla canzone Qui Dio non c’è di Claudio Baglioni (1990)
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