Non solo mascherine. Quanti guai per Irene Pivetti imprenditrice
L'indagine della Procura di Busto Arsizio offre un compendio sulla seconda vita dell'ex-presidente della Camera tra amicizie pericolose e affari che si rivelano fallimentari fino alla vicenda delle mascherine cinesi
Anno 2020, in Italia infuriava la pandemia da Covid e tutti erano chiusi in casa per il lockdown. Mentre in tv l’allora capo del governo italiano, Giuseppe Conte, dettava giornalmente cosa era consentito fare e cosa non era consentito ai 58 milioni di cittadini italiani, c’era una cittadina a cui sarebbe stato consentito di fare fin troppo. La cittadina in questione è Irene Pivetti, presidente della Camera dei Deputati tra il 1994 e il 1996, per 9 anni onorevole.
Da qualche giorno pende su di lei una richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Busto Arsizio per una lunga serie di reati (dalla frode in pubbliche forniture al riciclaggio, al contrabbando, alla bancarotta) che sarebbero stati commessi nella vicenda dell’importazione di mascherine dalla Cina durante i primissimi giorni della pandemia da Covid per la quale ha incassato, tramite la Only Italia Logistics qualcosa come 35 milioni di euro, 25 dei quali dalla Protezione Civile. Di quelle mascherine solo una parte è stato effettivamente importata e consegnata e nemmeno una sarebbe servita a proteggere chi le ha indossate dal coronavirus.
Dagli atti dell’indagine condotta dal sostituto procuratore Ciro Caramore, in collaborazione con la Guardia di Finanza, emerge un quadro sconcertante delle sue spericolate attività imprenditoriali e sulla gestione della pandemia da parte degli organi preposti che solo in parte è giustificabile con la situazione di assoluta emergenza che si stava verificando. Ma partiamo dall’inizio.
Genesi dell’indagine a Savona: mascherine fasulle vendute a 11 euro l’una
Tutto parte ad aprile del 2020 da un sequestro di mascherine FFP2 effettuato dalla Guardia di Finanza di Savona dopo un controllo in una farmacia che vendeva a 110 euro un pacco da 10 (11 euro l’una). La segnalazione era arrivata da una cittadina che le aveva acquistate. Le Fiamme Gialle scoprono che il certificato di conformità Ce esibito dall’importatore Only Italia è falso e iniziano i sequestri.
Quando Pivetti capisce che le mascherine sarebbero state tutte sequestrate avrebbe cercato di rivenderle in nero ad altre società all’estero e in parte in Italia, per un valore di 19 milioni di euro. Da una di queste società (ELTN in Bulgaria) sarebbe stata anche truffata con fidejussioni false. Quel denaro avrebbe dovuto essere utilizzato – ovviamente – per procurare allo Stato italiano la merce contrattualmente dovuta e non per finanziare operazioni di cessione a terzi.
La fame di mascherine della Protezione Civile e quella di soldi di Pivetti
Va detto che nessun membro della Protezione Civile o dell’allora Cts, è indagato in questo procedimento ma il sostituto procuratore non rinuncia ad analizzare come il sistema di controllo introdotto dalla normativa emergenziale si sia rivelato del tutto inefficiente e fallimentare. Nei due contratti tra il dipartimento e la società di Pivetti, infatti, emergono moltissime anomalie che porteranno ad importare dispositivi di pessima qualità che, si ipotizza nella richiesta di misura, «probabilmente hanno contribuito a diffondere l’epidemia e non a frenarla».
Una delle principali collaboratrici di Irene Pivetti ha dichiarato, in un interrogatorio dell’ottobre 2021: « Arrivarono effettivamente mascherine da una società cinese che erano prodotti pessimi, in parte non rispondenti alle foto che ci avevano inviato dalla Cina. Quasi tutte erano senza certificazione. La non rispondenza delle mascherine e dei prodotti raffigurati venne rilevata al momento dell’arrivo all’aeroporto. Camil (Grimaldi, genero di Pivetti e anche lui indagato, ndr), che gestiva la distribuzione, decise di consegnare comunque la merce. Camil era assetato di denaro. Avrebbe dovuto sospendere la distribuzione, secondo me».
Un altro collaboratore racconta la scena vista al terminal Beta Trans di Malpensa quando sia la Pivetti che Camil Grimaldi si rendono conto della pessima qualità dei dispositivi: « Di fatto, in seguito, la Pivetti ci diede il via libera a consegnare la merce dopo aver parlato con Camil». Un’altra teste ha mostrato immagini di mascherine arrivate all’interno di sacchi dell’immondizia.
In almeno un caso, in particolare, semi-maschere (del produttore cinese “Beijung Dongrui”) vendute dalla “Only Italia” alla Protezione Civile sono state consegnate alle Regioni e ad altri enti pubblici senza l’effettuazione di nessun controllo (pur essendo la “validazione straordinaria” del C.T.S. – peraltro puramente documentale – espressamente prevista dalla normativa emergenziale). Eppure tra i modelli di semi-maschere ve ne erano alcuni qualificabili come pericolosi.
I rapporti di Pivetti con la Protezione Civile, il bonifico monstre
Dalla ricostruzione effettuata dalla Guardia di Finanza appare evidente che l’ex-onorevole sapesse che avrebbe ottenuto commesse per milioni di euro il giorno stesso (26 febbraio 2020) in cui contattò per la prima volta il numero della Protezione Civile (un numero verde creato ad hoc per l’emergenza) e per questo informò la direttrice della sua banca che avrebbe ricevuto milioni di euro sul conto della Only Italia. Come poteva, prima ancora che vi fosse alcun contatto formale, sapere che la sua società avrebbe ottenuto contratti di ingente importo con un ente statale? Si chiede la Procura. Seppur semplificate, infatti, vi erano delle procedure da espletare.
Molte le anomalie registrate nella procedura, a partire dall’acconto del 60% erogato dalla Protezione Civile concesso solo alla Only Italia e ad una società giapponese (per una commessa molto più piccola, ndr) su 53 contratti stipulati. Incredibile è l’errore che viene effettuato in un bonifico quando vengono accreditati 11,8 milioni di euro in più di quanto pattuito (senza che questi soldi venissero stornati), anomalo il fatto che si sia dato un incarico così importante ad una società che non aveva alcuna garanzia mentre per altri soggetti, più solidi, che si erano proposti non è stato riservato lo stesso trattamento.
Il pm si chiede perchè la procedura di valutazione delle mascherine chirurgiche fosse stata lasciata in sospeso. Il canale in Cina di Pivetti, come ricostruito dall’indagine, era una donna di Roma attiva nel commercio locale e una donna cinese che aveva una società di import-export di moda tra Italia e Cina. Nessuno che avesse una competenza minima nel settore dei dispositivi sanitari.
Come uscivano i soldi dal conto della Only Italia
Come aveva avuto la Only Italia i soldi per operare? La società ha potuto farlo solo grazie ad un sostanzioso anticipo della Protezione Civile (60% del totale pattuito). La Only Italia, infatti, oltre a non avere nessun contatto rilevante con i produttori di mascherine, risulta essere una piccola realtà con un bilancio paragonabile ad un negozio di quartiere e dalle indagini emerge che non aveva nemmeno i fondi necessari a pagare le utenze.
I soldi transitati sul conto della società di Pivetti sono stato davvero tanti e serviva un modo per farli sparire prima che le varie indagini, partite già ad aprile del 2020, arrivassero al momento del sequestro. Lo ha fatto grazie alla collaborazione dell’imprenditore Luciano Mega (già indagato a Vicenza), di almeno una società a lui riconducibile (la Ste Stone Power International in Tunisia) e grazie ad altre due società ungheresi già attenzionate per riciclaggio. Il sistema sarebbe stato quello delle false fatture. Da queste ultime due società è partito un ulteriore frazionamento delle cifre verso Bulgaria, Svizzera e India rendendo impossibile risalire ai destinatari. A conti fatti la società di Pivetti non ha mai completato la commessa pattuita con la Protezione Civile, avrebbe incassato 35 milioni di euro (di cui 25 solo dalla Protezione Civile) senza restituire nemmeno un centesimo e avrebbe lasciato sul conto solo 1,2 milioni di euro che sono stati poi sequestrati dalla Guardia di Finanza.
I contatti con la criminalità organizzata, una lunga serie di affari andati male e debiti che si accumulano
Nella richieesta della Procura di Busto Arsizio si sottolinea anche altre vicende pregresse che hanno interessato l’ex-parlamentare come quella del palazzo di viale Monza preso in affitto per farne un incubatore di aziende, finita con centinaia di migliaia di euro di debiti e le utenze staccate.
Ad aggiungere opacità all’operato di Pivetti ci sono poi i rapporti che per un certo periodo (2018-2019) ha intessuto con due pregiudicati campani vicini ai clan di camorra di Castellammare di Stabia per quanto riguarda vicende legate all’importazione di carburante di contrabbando. In un caso – come emerge dalle chat con uno di loro – se ne serve anche per spaventare persone con cui non ha buoni rapporti (uno di questi è Lele Mora che avrebbe fatto cacciare dalla palazzina di viale Monza in malo modo). Esplicativa una chat whatsapp con il campano Giuseppe Vitaglione: “Buon pomeriggio Giuseppe la prossima settimana dovrei usare gli uffici per incontrare della gente fastidiosa. Mi sarebbe di grande aiuto incontrarli con lei perché così capiscono che i ricatti non si devono fare, i tentativi di estorsione nemmeno. Incontrarli insieme secondo me li aiuta a capire che non siamo fessi”.
Poi c’è la vicenda del “treno per la Cina” in cui avrebbe accumulato debiti con alcuni produttori italiani di ceramiche che di vedono sequestrare il materiale nelle dogane. Infine quella nota per cui è a processo, relativo alla compravendita di auto sportive. Un sacco di debiti dai quali avrebbe trovato il modo di uscirne, approfittando della più grande emergenza sanitaria del secolo.
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