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Da Gallarate al Canada per fare ricerca sui materiali quantistici: “È il desiderio di conoscenza che mi anima”

Dopo il dottorato a Montreal, Fabio Boschini ha scelto di stabilirsi nel Nord America dove oggi guida un team di giovani scienziati. “Qui le condizioni migliori per fare ricerca di base”

Varie Estero

Si scusa perché da quando è in Canada non è più abituato a dare del lei. A volte parla in francese e se c’è l’occasione rispolvera anche il suo italiano, ancora di ottimo livello, nonostante si sia trasferito da tempo in Nordamerica. Fabio Boschini, che ha vissuto a Gallarate fino a 26 anni, doveva rimanere a Vancouver solo il tempo di fare un’esperienza di ricerca, dopo aver conseguito una laurea in ingegneria fisica e un dottorato di ricerca al Politecnico di Milano.
Sono passati dieci anni da quando ha messo piede per la prima volta nella Columbia britannica a Vancouver e si è trovato così bene che ha sposato una canadese, è diventato papà, insegna all’Institut national de la recherche scientifique di Montreal Quebec e guida un team di giovani scienziati che fa ricerca di base sui materiali quantistici.
Più che un cervello in fuga, come in genere quelli come lui vengono definiti, quello di Boschini è un cervello che ha cercato e trovato le migliori opportunità per la sua vita da scienziato. (nella foto il professor Fabio Boschini dell’INRS mette sotto i riflettori la tecnica di fotoemissione TR-ARPES. )

Professore, la sua scelta di rimanere in Canada è una questione di prospettive per il futuro o c’è dell’altro?
«Mi sono trasferito in Canada nel marzo del 2015, grazie al professor Andrea Damascelli, direttore del Quantum Matter Institute dell’Università della British Columbia, che era venuto in visita al Politecnico di Milano, dove studiavo, considerato un’eccellenza italiana. Aveva bisogno di una persona con le mie caratteristiche e mi ha offerto un’esperienza all’estero di post-dottorato di cinque anni. Siamo nel 2024 e sarà difficile tornare indietro perché qui ho una prospettiva per me e la mia famiglia».

Per uno scienziato è tanto profonda la differenza tra Italia e Canada?
«Per chi come me fa ricerca di base, non c’è paragone tra le capacità di ricerca in Italia e quella canadese. La differenza è abissale e a farla sono i fondi a disposizione. Per quanto riguarda la ricerca nella fisica della materia condensata con l’utilizzo di laser ci vogliono tanti soldi. Se in Italia hai un supporto europeo, in genere estremamente competitivo, i soldi a disposizione sono tanti, altrimenti si ha poco o niente. Attualmente il mio gruppo comprende nove persone tra studenti, post-doctorandi e ricercatori. Insomma è come avere una piccola impresa. In Canada è possibile perché ci sono tante opportunità per ottenere fondi necessari».

A chi si rivolge lei quando ha bisogno di finanziamenti per le sue ricerche?
«Dipende che cosa devo finanziare, cioè se devo pagare i ricercatori oppure costruire un laboratorio. Sono fondi differenti, alcuni li puoi utilizzare solo per comprare strumentazione ma non per pagare il personale. C’è una logica ferrea: non si costruisce uno strumento di milioni di dollari, per non avere poi i soldi per pagare il personale che lo può montare e far funzionare. Parte del mio lavoro è dunque chiedere finanziamenti alle diverse agenzie di finanziamento. In Canada ce ne sono di diverse sia governative sia provinciali. Per le grandi infrastrutture abbiamo il CFI (Canada Foundation for Innovation, ndr ) poi ci sono eccellenze come il programma Canada Research Chairs che eroga finanziamenti a persone che sono leader in un determinato campo. Il finanziamento paga lo stipendio del professore e possono essere utilizzati per supportare nei cinque anni la ricerca di persone. Recentemente abbiamo ricevuto i fondi della fondazione americana Gordon Moore (lo scienziato noto per la legge che porta il suo nome, ndr), uno dei tre fondatori di Intel. Siamo stati selezionati e abbiamo preso un finanziamento di 1,8 milioni di dollari per provare a inventare una nuova tecnica per investigare i materiali quantistici».

Il suo team si occupa di fisica quantistica che viene spesso intesa dai profani come una nuova frontiera e descritta dai media con un’enfasi e un’aura di mistero non giustificate. Lei cosa ne pensa?
«È vero e credo che invece bisogna essere molto realistici. Ogni materiale è quantistico, anche un tavolo o la tastiera su cui lei sta scrivendo».

Che cosa intende dire?
«Intendo dire che sono oggetti formati da atomi ed elettroni che interagiscono tra di loro e quindi determinano le loro proprietà. Ma quando noi parliamo di materiali quantistici parliamo di un materiale che mantiene delle proprietà esotiche anche a livello macroscopico. I superconduttori sono un esempio e vengono usati negli ospedali per fare la risonanza magnetica. Sono dunque materiali che già utilizziamo ma che ancora non riusciamo a descrivere bene. La mia ricerca è di base non ha alcuna applicazione diretta ma esploro le proprietà di questi materiali. Quando Joseph John Thomson alla fine dell’Ottocento ha presentato la scoperta dell’elettrone alla Royal Society inglese i ricercatori hanno osservato: “Ma non ci serve a nulla”. La mia ricerca ha uno scopo di fondo: aumentare la nostra conoscenza sui materiali quantistici. Le proprietà elettroniche dei materiali vengono date da come gli elettroni interagiscono tra di loro. Abbiamo a che fare con la complessità perché quando parliamo del numero di elettroni che interagiscono in un determinato materiale parliamo di cifre comparabili al numero totale di stelle nell’universo osservabile. Sono letteralmente numeri astronomici».

Come possiamo descrivere tutte queste interazioni?
«Ci sono dei modelli matematici, facciamo delle misure e tutto viene descritto in modo approssimato. Però ci rendiamo conto che queste approssimazioni non sono veramente corrette e allora stiamo elaborando misure e modelli all’avanguardia per comprendere come gli elettroni interagiscono nei materiali e le proprietà emergenti della materia. Comprendere e classificare tutte queste interazioni elettroniche è un’impresa ardua. Faccio ricerca non per un’applicazione ma per imparare qualcosa di nuovo ogni giorno. È il desiderio di conoscenza che mi anima. Mi auguro che questa nuova conoscenza un giorno crei nuovi dispositivi ma non è quello che mi muove e nemmeno il mio obiettivo».

Secondo lei, si può affermare che la ricerca di base ha in sé una matrice democratica perché è a disposizione della conoscenza universale?
«È così, la ricerca di base è un processo democratico: ha la libertà e al tempo stesso la responsabilità di condividere la sua conoscenza con tutta la comunità. Errori e successi sono a disposizioni di tutti».

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Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it
Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.
Pubblicato il 04 Luglio 2024
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