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Da Glocal DOC ai festival internazionali: arriva in sala “Out There” di Alessandro Leone

Intervista la regista del documentario che ha ottenuto diversi riconoscimenti nei festival del mondo. Presentato all'Arcadia di Melzo, il 28 novembre doppia proiezione a Gallarate

Glocal DOC - Serata finale

Presentato ufficialmente la versione definitiva di “Out There” di Alessandro Leone, documentario lungometraggio che era già stato presentato a Glcoal DOC, festival del documentario di Varese, nel 2023, dove aveva ricevuto una menzione speciale. La prima proiezione ufficiale del film è avvenuta nei giorni scorsi al cinema Arcadia di Melzo, con il regista varesino presente in sala, mentre il 28 novembre sarà al cinema Delle Arti a Gallarate, con una doppia proiezione, alle 15 e alle 21.

Dopo più di tre anni dal primo lockdown, Alessandro Leone, regista e insegnante in una scuola secondaria di primo grado, assembla una serie di videochiamate e filmati realizzati nella primavera 2020 con un equipaggiamento di fortuna nel confine della sua abitazione. «Sono finestre aperte sugli unici mondi accessibili: una piccola comunità di bambini tolti alla strada in una slum-area di Mumbai, i suoi nipoti, i suoi studenti – spiega il regista -. Lo sguardo dei bambini sull’emergenza sanitaria, le angosce alimentate dal flusso di informazioni, si alternano alla cruda realtà dello slum e dei pochi superstiti in cerca di cibo nelle strade innaturalmente vuote, ai margini delle stazioni, nel cuore della megalopoli, dove non c’è più traccia di centinaia di street children. A migliaia di chilometri di distanza, tutti sembrano voler dare un senso alla parola “riparare”».

 

Un racconto quasi intimo…
«È un racconto che si è fatto mentre ascoltavo e montavo, un racconto anche su come si sviluppava il racconto (ma non era previsto). Eppure tutto il materiale girato e premontato, circa 180 ore, è rimasto a decantare per più di tre anni, messo in pausa, quasi respingente era l’idea di dargli una forma. Troppe immagini avevano descritto il primo lockdown, fino alla nausea. Il mio NON volevo fosse un lavoro sul lockdown, ma un film che, con il pretesto del lockdown, potesse raccontare qualcosa dell’infanzia, della fragilità dei bambini e della loro capacità di riparare e costruire ripari, quando qualcosa si lacera. Sono dovute passare tre estati per tornare a ripensare Out There in questa chiave e dargli un aspetto finito».

Out There Alessandro Leone

Nel tempo Ti aspettavi questi risultati?
«Dopo la proiezione davanti a un pubblico di adolescenti a Glocal Doc 2023 (quando il film aveva ancora il titolo provvisorio di “20_20” e durava due minuti in meno), l’ottima risposta di quegli spettatori, così giovani, mi ha spinto a tentare la strada dei festival. La co-produttrice tedesca, Christine Ruppert, che mi aveva invitato a scongelare e montare tutto il girato archiviato in quei mesi di lockdown, era convinta che il film avrebbe trovato i favori del pubblico dopo tre/quattro anni dalla pandemia. Aveva ragione.
Quando a gennaio 2024, chiusa la post-produzione, il film ha preso la sua forma definitiva e il titolo di “Out There”, ho tentato la via dei festival. In Italia lo ha preso solo l’Ischia Global Film Festival, l’estate scorsa, mentre, sorprendentemente, all’estero, soprattutto in Asia, “Out There” è stato selezionato in decine di festival, vincendo numerosi premi, 11 solo in India. Poi il premio della giuria all’Asia Film Festival e miglior documentario a Tabriz, in Iran. In mezzo un riconoscimento a Vancouver, al Bridge Film Festival (miglior film per ragazzi), un riconoscimento a Londra e uno a Washington, dove lo hanno premiato come film che meglio ha interpretato il periodo della pandemia; un premio a San Paolo, in Brasile, questa volta per il montaggio, una menzione d’onore al Mexico Film Festival Awards.
Mi ha molto emozionato il fatto che alcune giurie abbiano colto il lavoro fatto proprio in sede di montaggio, che nel documentario è un po’ la terza fase di scrittura. Avevo circa 160 ore di registrazione, ridotte poi a 66’. Non è stato semplice, tra tante pause e ripensamenti, ho impiegato tre anni a licenziare la versione definitiva. Al The Best Film Festival di Barcellona, il premio al miglior documentario lungometraggio recita: “Il regista approfitta del lockdown che abbiamo patito per creare una vera e propria opera d’arte che non lascia indifferenti, con immagini di grande bellezza e una trama solida, che rimane impressa nella mente. Direzione della fotografia di alto livello, capace di coinvolgere lo spettatore”. Il riferimento alla costruzione del racconto e alla fotografia colgono un lavoro meticoloso, pur nella ristrettezza dei mezzi con cui mi sono trovato a produrre in solitaria. Se ne sono accorti all’estero, detto senza polemica.
Adesso aspetto con ansia il Nepal Cultural International Film Festival di Kathmandu che si terrà tra fine gennaio e i primi di febbraio, sono in concorso e mi hanno invitato per i quattro giorni di festival».

Cosa ti dicono le persone che lo hanno visto?
«Che quel periodo sembra distante anni luce e che il film pare una specie di reperto, di testimonianza nuova perché interpella i bambini e i preadolescenti, a cui nessuno, in quei mesi, aveva dato spazio. Qualcuno mi ha anche detto di aver fatto fatica inizialmente a entrare nel film, proprio perché tirava fuori qualcosa di sommerso. Sicuramente sguardi e voci dei bambini danno una mano in questo ritorno inaspettato dopo, ormai, quasi cinque anni, a quei giorni fuori dall’ordinario. Poi c’è l’India, Mumbai: gli interrogativi posti dal missionario Peter Paul riguardanti la sorte di migliaia di bambini di strada, attraversano lo schermo. In molti mi chiedono a fine proiezione quale sia stato il destino di tanti minori scomparsi da strade e snodi ferroviari. Infine, qualcuno mi ha detto di essere stato sorpreso dall’idea di fare racconto attraverso le videochiamate. Questa è stata una scommessa, perché le immagini su grande schermo in certi casi sono davvero sgranate e disturbate, il contrario della patina televisiva a cui siamo abituati».

Out There Alessandro Leone

Stai lavorando alla distribuzione?
«In verità la produzione la stiamo facendo in casa con l’Associazione APIS – Arti per l’Innovazione Sociale, che ha co-prodotto il film. È una realtà nata a Milano, il cui presidente è Massimo Donati, regista di “Diario di spezie” e con cui ho girato “Fuoriscena”, uscito in sala dieci anni fa. In questi casi possiamo parlare di distribuzione indipendente, porta-a-porta, un classico per il documentario. Almeno in attesa di soggetti con capacità distributive migliori. La stessa Christine Ruppert sta lavorando per una distribuzione su piattaforma nel 2025. La mia idea però è di farlo circolare anche attraverso associazioni, sale ACLI, ARCI, gruppi parrocchiali, ecc.. I ricavi andranno sempre in beneficienza a supporto della Good Samaritan Mission di Mumbai, che da 30 anni si occupa di dare alloggio e istruzione ai bambini di strada e che è co-protagonista del film. È una realtà che conosco dal 2004. La nostra Frame Project ODV (www.progettoframe.org) è nata proprio per la GSM. E a Mumbai vorrei ambientare il mio prossimo lavoro. Per adesso sono in fase embrionale. Le energie residue sono per la distribuzione. È importante trovare luoghi per mostrare il film e raccogliere denaro che permetterà gli amici della missione indiana di ristrutturare una delle loro case famiglia».

Pubblicato il 25 Novembre 2024
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