15 gennaio 2009, il “miracolo dell’Hudson”: l’ammaraggio a New York e i 150 passeggeri salvati grazie ad un equipaggio preparato
L'episodio è stato raccontato anche dal film "Sully", incentrato sula decisione del pilota Chesley Sullenberger. Ma tutto l'equipaggio quel giorno fu fondamentale, come racconta l'assistente di volo Doreen Welsh, in un'intervista inedita
«Quando vidi l’acqua attraverso la porta rimasi scioccata, ero totalmente inconsapevole».
Doreen Welsh era in servizio sul volo 1549 di Us Airways, il 15 gennaio 2009. Era l’assistente di volo che sedeva in coda, quando l’Airbus si posò nelle acque gelide del fiume Hudson a New York City (foto: Wikimedia Commons).
L’incidente è diventato noto nelle cronache come “il miracolo dell’Hudson”: quel giorno si salvarono tutti i 150 passeggeri a bordo e i cinque membri dell’equipaggio.
L’episodio ebbe enorme notorietà per l’esito favorevole, perché avvenne sui cieli e nelle acque di una delle più grandi metropoli del mondo e anche grazie al film che Clint Eastwood ha dedicato al fatto, “Sully”.
Un film che, fin dal titolo, è incentrato sulla figura del comandante del velivolo, Chesley “Sully” Sullenberger, che prese la decisione di ammarare nel fiume (con grandi rischi), essendosi reso conto che non avrebbe potuto rientrare sull’aeroporto da dove era decollato – La Guardia – e che non avrebbe potuto raggiungere altri scali vicini, come Teterboro sulla sponda del New Jersey.
Il “miracolo dell’Hudson” fu reso possibile non solo dal pilota, ma anche da tutte le persone coinvolte: dalle decine di soccorritori mobilitati – che salvarono i passeggeri dalle acque gelide del fiume – al personale di bordo del 1549.
Tra loro c’era appunto anche Doreen Welsh, assistente di volo seduta nella parte posteriore della cabina del velivolo, che fu anche la persona che riportò le ferite più gravi, avendo avuto una gamba trafitta da uno spuntone di metallo (ha poi sofferto di Sindrome Post-Traumatica da Stress).
Doreen Welsh e le sue due colleghe in servizio quel giorno (Sheila Dail e Donna Dent) ebbero una parte importante nel “miracolo dell’Hudson”, avendo predisposto l’evacuazione dei passeggeri dal velivolo e la messa in sicurezza sulle ali, evitando che si tuffassero nel fiume. Un ruolo rimasto in secondo piano nel film, dove le tre assistenti di volo quasi scompaiono nella ricostruzione della fase finale dell’incidente. Questo aspetto viene raccontato dalla stessa Welsh in una intervista con Chiara Realmuto, un’assistente di volo che si è laureata (in Scienze della Comunicazione all’Università Insubria di Varese) con una tesi che dedica un capitolo al caso del volo Us Airways 1549:
Le assistenti di volo nel film rimangono ai margini dell’evacuazione. Sully è riuscito ad atterrare sull’Hudson con una manovra incredibile e gli sarò sempre riconoscente per questo, ma non ebbe il tempo di aiutare i passeggeri ad evacuare, come diversamente viene mostrato nel film. Quando uscirono dalla cabina di pilotaggio, i passeggeri avevano già abbandonato l’aereo.
La tesi di Chiara Realmuto (che lavora per Easyjet) indaga la “Relazione tra incidenti aerei ed errori di comunicazione”, attraverso l’analisi di sei casi tra cui appunto quello del 15 gennaio 2009. L’intervista inedita a Doreen Welsh mette in luce come, al momento dell’ammaraggio nell’Hudson, le assistenti di volo si trovarono a gestire una situazione imprevista:
Pensavo di essere in un aeroporto perché Sully non ci diede alcun avvertimento sulla nostra reale posizione. Invece di dire “Prepararsi all’impatto” avrebbe dovuto dire “Prepararsi all’ammaraggio”, ma non lo fece.
La gestione dell’evacuazione fu un momento delicato:
Non importa che tu sia o meno un’assistente di volo, siamo tutti consapevoli di cosa significhino quelle parole. Forse i passeggeri pensavano a come
proteggersi, ma io sapevo bene che stavamo per schiantarci. Milioni di pensieri mi attraversavano la mente, poi improvvisamente mi sono detta che dovevo fare quello per cui sono stata addestrata per anni. Nel momento dell’impatto, una barra d’acciaio si è infilata nella mia gamba, ma io non me ne sono resa conto, non ho sentito il dolore grazie all’adrenalina. Quando mi sono alzata dal mio strapuntino, ignoravo che dietro ad esso si fosse aperto un grosso buco dal quale iniziava a salire l’acqua del fiume. Non mi era visibile poiché coperto da un pannello, ma intanto l’acqua iniziava a scorrere in cabina. Sono corsa all’unica porta agibile del galley perché l’altra era bloccata da un carrello delle bevande. Mentre realizzavo di essere atterrati nell’Hudson, un gruppo di passeggeri si stavano già dirigendo verso di me. Non ebbi altra scelta che bloccarli fisicamente urlando loro che l’uscita era inutilizzabile e indirizzarli verso le uscite centrali. Furono secondi interminabili. L’acqua saliva rapidamente e non appena riuscivo a far avanzare alcuni passeggeri, ne scoprivo altri già talmente assiderati da non riuscire quasi a muoversi. Pensavo che se l’acqua mi fosse arrivata al collo sarebbe stata la mia fine. Così continuai a spingere e urlare ai più giovani di scavalcare i sedili per lasciare il corridoio a chi avesse problemi di mobilità. Non ricordo neanche tutte le loro facce ero in preda all’adrenalina. Quando finalmente raggiunsi i finestrini d’emergenza, vidi la gente in piedi sull’ala e decisi di proseguire fino alle porte principali dove si trovavano le scialuppe, invitai alcuni passeggeri a seguirmi. Raggiungemmo la porta 1L e indossammo un giubbotto di salvataggio. Fu solo allora che realizzai che ero ferita.
Oltre al riconoscimento del ruolo del personale nel suo insieme, la tesi di Realmuto si è appunto concentrata su questo aspetto: la mancanza di comunicazione sull’ammaraggio non è stato un errore personale del comandante Sullenberger, ma il frutto di una procedura non codificata per indicare le condizioni di impatto.
Le check list dell’Airbus in caso di perdita di potenza da tutti i motori prevedono infatti che il pilota si limiti a comunicare al resto dell’equipaggio il “Brace for impact” (messaggio ripetuto ai passeggeri dalle assistenti di volo). Ma questo non distingue appunto l’eventualità di un impatto su terraferma o in acqua (“ditching”).
La verifica della check list e l’annuncio sono anche in una delle scene del film Sully:
«Sarebbe bastato cambiare la fraseologia “Brace for impact” con una frase che potesse indicare al personale di cabina una più precisa consapevolezza situazionale, “Brace for ditching” ad esempio» scrive Realmuto nelle sue conclusioni. «Le tre assistenti di volo del US Airways 1549, lo ribadirono più volte nel corso dell’inchiesta e delle interviste, parte del loro shock fu anche di trovarsi sull’acqua».
Chiara Realmuto il giorno della laureaIn quel caso la fortuna volle che a bordo ci fossero anche assistenti di volo esperte (due con quasi trent’anni di esperienza e una con venti), che non ebbero esitazioni – nonostante la situazione inattesa – a gestire le persone a bordo: Welsh infatti si rese immediatamente conto che le uscite posteriori erano inutilizzabili, per la presenza di acqua già alta, e riuscì a “respingere” i passeggeri spaventati che stavano dirigendosi verso di lei e a indirizzarli verso le uscite a metà velivolo, da cui poterono passare sulle ali.
Fu anche grazie alla sua esperienza che si compì il “miracolo dell’Hudson”.
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