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Carceri: Restiamo umani

Le riflessioni di Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

carcere generiche

Carceri: restiamo umani. Perché usiamo queste parole? Perché ora, ai tempi del coronavirus, tutti ci affanniamo a dire che bisogna ripensare la nostra vita, che bisogna riscoprire il valore del tempo, delle relazioni, dell’essere comunità, della nostra umanità, oggi soffocata dall’odio sociale.

Questo è quello che noi volontari in carcere cerchiamo SEMPRE di fare.

Da anni, il motore delle attività del volontariato nelle carceri e sul territorio è l’idea di ricostruire il rapporto tra la società e gli uomini e le donne che ne hanno violato le regole. Se dovessimo pensare a qualcuno a cui ispirarci in questo lavoro, torniamo a dire che lo troveremmo nello scrittore israeliano David Grossman, là dove ci insegna a guardare il mondo “con gli occhi del nemico”: “Quando abbiamo conosciuto l’altro dall’interno, da quel momento non possiamo più essere completamente indifferenti a lui. Ci risulterà difficile rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una “non persona”. Non potremo più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia. E forse diventeremo anche più indulgenti con i suoi errori”. Ma è un’impresa titanica, accompagnare per mano le persone, in particolare quelle che un altro scrittore, Edoardo Albinati, definisce “odiatori in servizio permanente”, a non trattare chi sta in carcere come “non persone”. E lo è soprattutto oggi, in un momento in cui gli “odiatori” hanno trovato un alibi: quello per cui “non possiamo dargliela vinta a quei violenti che hanno assaltato le carceri”. E invece dobbiamo avere la forza di gestire anche la nostra rabbia, di capire la disperazione di chi sta in carcere, e di pensare a misure serie per disinnescare quella bomba che sono le nostre galere oggi. Farlo è importante anche per quegli operatori, come la Polizia penitenziaria, ma anche gli operatori dell’area pedagogica, che per fare decentemente il loro lavoro, oggi diventato drammaticamente difficile, e dare a quel lavoro più forza e più importanza, hanno bisogno di carceri più umane e dignitose.

Per questo oggi vi chiediamo di ASCOLTARCI. Dopo i familiari, siamo stati i primi ad essere esclusi dalle carceri, per la sicurezza sanitaria. Ma forse qualche consiglio ve lo possiamo dare. È questo il motivo per cui vi abbiamo chiesto di istituire presso ogni Istituto di pena una specie di Unità di crisi che coinvolga tutti, e quindi anche noi, che siamo in grado di aiutarvi in particolare nella comunicazione e nel mantenere i rapporti con le famiglie delle persone detenute. Perché è certo che il Volontariato ha qualcosa da dire su come affrontare i conflitti, le paure, la solitudine, la rabbia delle persone, private della libertà personale e non sempre trattate, appunto, come PERSONE.

A proposito di circolari, misure di prevenzione, conseguenze da gestire

Le circolari non sono quasi mai testi “con un’anima”, ma da quando è scoppiata l’epidemia di coronavirus, dentro a carceri già stremate dal sovraffollamento, ci sarebbe bisogno di questo, di pensare a misure efficaci, ma anche di tirar fuori tutta l’anima possibile per spiegarle alle persone detenute, alle loro famiglie, agli operatori stessi. La lettura delle circolari è un esercizio utile per capire cosa sta invece succedendo nelle carceri: si danno disposizioni tecniche, con lo scopo di “salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica collettiva”, ma non si vuole capire che l’ordine e la sicurezza si garantiscono anche dialogando, tirando fuori tutti i residui di cuore e anima che le Istituzioni DEVONO avere e mettendoli in piazza con coraggio e senza timore di apparire deboli.

Per tutto quello che riguarda gli affetti, le circolari non devono dire vagamente di aumentare le telefonate, far usare Skype, invitare ad istituire un servizio di posta elettronica per i rapporti con le famiglie. Devono far capire che tutto questo non è una striminzita concessione per far star calmi i detenuti, ma la volontà forte e chiara di capire la loro sofferenza e di cercare di alleviarla avvicinando le loro famiglie.

Le istituzioni quindi dovrebbero essere in grado, oltre che di acquistare degli smartphone per farli usare in modo controllato, di calcolare il tempo disponibile per l’uso del telefono e suddividerlo per i detenuti che vogliono telefonare. E stabilire un fondo straordinario per chi non ha soldi nel conto corrente: ma possibile che un’amministrazione, che ha speso tre milioni e mezzo di euro per bloccare la circolazione di telefonini in carcere, venga a chiedere alle associazioni e alle cooperative di mettere un po’ di euro per far telefonare i detenuti indigenti?

Quanto alle postazioni Skype, vanno introdotte dove ancora non ci sono, e aumentate, monitorate senza inventarsi regole mostruosamente complesse per il loro uso.

La circolare poi del DAP sull’accesso da parte delle persone detenute alla posta elettronica rompe il tabù sull’ingresso della tecnologia in carcere. Ma è un provvedimento che rischia di essere una vuota dichiarazione d’intenti, in un luogo che finora si è attrezzato per resistere all’uso delle tecnologie, anche del solo computer in cella. Come si può fare per rendere effettiva questa disposizione in sicurezza?

Forse si potrebbe ipotizzare di fornire un computer con connessione internet per sezione, che può essere usato sia per Skype sia per la posta elettronica; e se non è possibile una connessione fissa (adsl) dotare l’agente di sezione di dispositivo per l’accesso ad Internet (tipo WebCube). Basta un cubo per più computer che non siano troppo distanti, e consentire poi tramite filtri il solo accesso a provider di posta elettronica tipo Gmail.

Per la posta elettronica ogni detenuto dovrebbe aprire una propria casella sullo stesso provider e poter utilizzare il computer per una volta al giorno per 10-15 minuti o a seconda delle possibilità (numero di detenuti per computer). Allo stesso modo si possono organizzare dei turni per Skype, consegnando la lista degli account delle persone autorizzate all’agente di sezione, a cui sarebbe affidato il controllo delle regole di utilizzo, finché non vengono realizzate le protezioni opportune.

Per quel che riguarda le proposte, per ridurre il numero di detenuti presenti, non siamo addetti ai lavori e ci fidiamo di chi, da anni, propone un approccio serio al tema del sovraffollamento, un approccio che parta non dalla necessità di “sfollare” le carceri, ma dalla consapevolezza che la pena del carcere dev’essere davvero data solo quando c’è una reale pericolosità sociale, e per il resto servono pene più miti e intelligenti, sì intelligenti, diciamola pure questa parola, sono intelligenti le pene che danno alle persone, responsabili di reati, la possibilità di capire e cambiare, e alla società la consapevolezza che riaccogliere queste persone ci rende tutti più sicuri. Dire che mandare in detenzione domiciliare persone a cui mancano pochi mesi da scontare costituisca un pericolo è solo una finzione, il pericolo vero è tenerle in galera e rischiare che le galere diventino luoghi fuori controllo.

Quello che è certo è che tutti noi, che ci occupiamo di questi temi, fatichiamo perfino in questo disastro ad avere un pensiero comune, senza etichette e senza protagonisti, ma ce la faremo, dobbiamo farcela se vogliamo contare qualcosa.

Per finire, rispetto alla prevenzione del contagio da coronavirus, siamo talmente spaventati anche noi, nella nostra condizione di persone libere, che questa posizione del provare a mettersi “nei panni del nemico” la riteniamo un momento fondamentale di civiltà. Perché per noi, che facciamo volontariato in carcere, è facile accettare che non siamo in guerra e non abbiamo a che fare con dei “nemici”, ma per voi fuori capiamo che abbiate paura e che riteniate chi sta in carcere un nemico della vostra serenità. Ma se provate a immaginare di essere ancora più chiusi di quello che siete oggi, ancora più lontani dai vostri cari, ancora più abbandonati e soli, forse potete capire che se, come dice Grossman, tratterete anche il vostro nemico come persona, contribuirete a rendere la società un po’ meno cattiva e un po’ meno disperata.

Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

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Pubblicato il 16 Marzo 2020
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