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Il medico di base: “Troppe criticità, pazienti abbandonati a se stessi”

Annunziata DiFonte lavora a Ferno, uno dei Comuni con la più alta concentrazione di contagi, senza contare tanti a casa con sintomi. "Non abbiamo neppure le mascherine adatte, ci sono arrivate solo quelle chirurgiche"

Ferno nei giorni del coronavirus

«Io non seguo nessun caso conclamato. Ma ho una ventina di sospetti Covid, tutti a casa». La dottoressa Annunziata DiFonte è uno dei medici di Ferno, uno dei Comuni con la maggior incidenza di casi ufficiali: il suo racconto conferma l’impressione di un contagio molto più ampio di quanto registrato nelle statistiche ufficiali.

Lo studio è nel centro del paese, la porta chiusa perché si accede solo su prenotazione, mentre il grosso del lavoro – ricette comprese – si fa a distanza. Si presentano alcuni pazienti, intanto suona il telefono. «Abbiamo dovuto cambiare modo di lavorare: i pazienti vengono ascoltati prevalentemente per telefono o per whatsapp, le ricette si spediscono via mail o su whatsapp. Limitiamo così al massimo l’uscita del paziente. Si riceve solo su appuntamento, anche la segretaria lavora da casa».

Un passaggio recepito con una certa fatica dai “mutuati” (per usare un termine d’altri tempi) ma oggi accettato. «All’inizio si faticava molto, fino qualche settimana fa si vedeva gente in coda qui fuori, all’esterno, senza mascherina. Le cose adesso stanno andando abbastanza bene».

Torniamo ai casi. A Ferno si registrano 17 casi, ci sono stati tre morti in totale: l’incidenza è di un caso ogni 400 abitanti circa, una media piuttosto alta, rispetto ad altre località. «Io non ho avuto pazienti ricoverati né morti. Ho avuto però una ventina di sospetti Covid». Persone con febbre persistente, più sintomi, sospette polmoniti: solo due sono rientrati però nelle denunce all’Ats, stando alle regole cui si devono attenere i medici. «Prima se non c’erano contatti con contagiati non si segnalava. Da una decina giorni si segnalano anche persone con più sintomi». Tre persone sono ancora sintomatiche oggi

I pazienti malati vengono monitorati a distanza, via telefono, vengono date indicazioni terapeutiche. «Solo in un caso si è intervenuti attraverso il 112, uscito per due coniugi con sintomi che poi però non sono stati ricoverati. In altri casi è stata fatta richiesta ma questa non ha avuto seguito. Ho ottenuto solo un tampone».

Anche i casi sospetti sono stati seguiti a distanza. «Tranne qualcuno visitato a casa, anche con rischio perché non abbiamo mascherine adeguate per avere contatto Covid positivi». Per ridurre il rischio servrebbero mascherine, guanti, tute e camici. Invece il medico si deve limitare a «guanti e doppia mascherina chirurgica».

La dottoressa DiFonte fa una pausa, per sottolineare la gravità con cui dà un giudizio complessivo: «I pazienti sono stati abbandonati, non hanno potuto neppure ricevere la visita da parte di un medico». I medici di base ci sono, ma spesso non sono in condizioni di lavorare, mentre manca una struttura in grado di seguire a livello territoriale. «Quello che mi ha molto amareggiato è la mancanza di dispositivi di protezione. Per fortuna io ho potuto usare subito le mascherine chirurgiche, quelle che avevo a casa. Da Ats ci sono poi arrivate solo alcune mascherine chirurgiche». Insufficienti, per accostarsi a supposti casi-Covid.

«Il medico di medicina generale non aveva protezioni individuali, il 112 non usciva se non erano in condizioni gravi. Se in un altro contesto diamo cura adeguata, in questo contesto il paziente non ha ricevuto subito cure: se lo si fosse fatto tempestivamente avremmo avuto almeno un quadro più chiaro. Da oggi, 9 aprile, vengono attivate le Usca, “unità speciali continuità assistenziale”, che dovrebbero garantire la possibilità di un monitoraggio dalle 8 alle 20. Ma intanto abbiamo perso un mese».

C’è anche un altro tema: in questo contesto manca anche il monitoraggio di chi dovrebbe tornare a lavorare e di chi – sanitari, addetti della logistica, lavoratori della distribuzione alimentare, ma anche nella manifattura – non ha mai smesso di lavorare. «Sono anche medico del lavoro e mi sto ponendo il problema: si possono fare i test per gli anticorpi, ma non sappiamo con certezza se qualcuno è ancora contagioso. A meno che non venga fatto un tampone». Ad oggi, una chimera.

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it
Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare.
Pubblicato il 09 Aprile 2020
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