L’arte del “tirar fuori” di Mario da Corgeno di Vergiate
Mario Favini vive e lavora nella cascina di famiglia. Le sue opere viaggiano per il mondo ma lui preferisce non allontanarsi dal lago. Trasforma disagio e sofferenza in arte che interroga e spinge a guardarsi dentro
L’aria di gennaio, frizzante ma non troppo, quasi non entra tra le “case matte” del Mario, tirate su con la fantasia e il genio di un Gaudì nostrano. E lui, tra questi muri antichi o sbilenchi, lo devi cercare: alla vecchia cascina o in uno dei suoi laboratori. Se sta lavorando, è quasi impossibile stanarlo, con un po’ di fortuna lo puoi soltanto intravvedere oltre i vetri impolverati, con i suoi strumenti in mano, attorno a un pezzo di marmo o con il capo chino su un disegno. Se è in “buona”, però, ti viene incontro come un vecchio amico.
Quasi si vergogna nel mostrarsi troppo contento della visita. Ha l’aspetto burbero, sì, passandosi una manona sul volto non riesce a mascherare la sua felicità genuina, che vien fuori lo stesso da dietro le dita, tra le rughe, la barba e il sorriso. «Robb de matt», secondo Mario Da Corgeno, nome d’arte di Mario Favini. Cose matte, come il dover andare a Milano all’inaugurazione della sua ennesima mostra personale, questa volta al Pirellone. La manona resta sul volto, baluardo della sua natura timida. Lo sguardo e le parole, invece, cercano un contatto, che è quasi un conforto: «Vogliono che vada giù fino a là, ma è una cosa matta. Sì, ma dopo l’inaugurazione torno qui, sto più tranquillo».
È un topo di campagna, il Mario, che vive i vernissage come un disagio, come un figlio di contadini alle prese con vestiti e platee troppo eleganti, spesso di circostanza o addirittura finte. Dentro la sua cascina di Corgeno di Vergiate, tra i muri che l’hanno visto crescere, maturare, invecchiare è invece lui, il Mario autentico. Ha 77 anni ormai, è l’artista in vita forse più incredibile della nostra terra dei laghi: perché il suo genio non lo ostenta, vien fuori senza che lui lo voglia, nel modo più naturale, autentico.
Un istinto e una forza innate. È veramente una meraviglia poter osservare il suo sguardo d’artista e quelle mani solo apparentemente grezze, che disegnano in continuazione su fogli sparsi un po’ in tutta la casa e nei suoi laboratori, è un privilegio per pochi amici veri, guardare quelle dita che lavorano in modo straordinario la creta, il marmo, il legno, da quello sguardo che sa cogliere qualcosa in più, nell’animo umano. Dita che magari si fermano davanti alla scultura nascente, per dirti: «Accarezzala, le mie opere andrebbero toccate, per sentire l’anima. La vita». E l’emozione, per chi, come chi scrive, ha avuto questo privilegio è fortissima, scuote i sentimenti.
Mario da Corgeno non sa cosa sia la rivoluzione digitale, non ha il telefonino, non segue i telegiornali, non ama viaggiare, eppure è un grande testimone di questo tempo. Ci riesce in modo meraviglioso. «Mi invitano da sempre a girare il mondo. Loro, le mie opere hanno girato il mondo, ma io no, non sono capace». Nemmeno il suo maestro, Pietro Annigoni, che stravedeva per lui, riuscì a portarlo a Londra a perfezionare la sua maturazione: dopo aver frequentato la sua bottega di Firenze, Mario decise di tornare nel suo piccolo mondo, in riva al Lago di Comabbio.
«Fin da bambino, mi chiamavano Mario il matto». In un paesino di contadini, la sensibilità d’artista non veniva contemplata, era qualcosa fuori dal normale. «Più di una volta, a mia madre hanno detto di farmi vedere da uno bravo perché non ero tutto io». La Ines Franzetti, la sua maestra della scuola elementare, aveva capito che quel bambino non aveva qualcosa di strano, ma di speciale. Convinse la sua famiglia a mandarlo da un pittore milanese, Pietro Gajoni: «Lui disse a mia madre: “Questo ragazzo è dentro un guscio di un uovo; se lo apro, usciranno fuori tutte le sue qualità”. E mia mamma accettò, io devo tutto ai sacrifici di mia mamma che mi fece studiare». E da allora, da quasi settant’anni, non ha tempo per altro, vive per la sua arte, che si riassume in un concetto semplice e, al tempo stesso complicato, che lui stesso ripete in continuazione: «Tirar fuori». Sì, la sua arte è tutto un “tirar fuori”. Da sé stesso e dagli altri, dalla materia e dalle idee. Cosa? La sua verità, l’anima, il dolore, la pace interiore, la sofferenza, l’amore, la fede. Fuori, al di là dei muri della sua cascina, il mondo cambia, va avanti, corre fin troppo veloce, smette di pensare. Lui resta ancorato ai suoi ritmi, la signora della trattoria lì vicina gli porta i pasti, non ha bisogno di altro.
Le giornate del Mario, tra il lago e i prati che lui stesso bonificò col fratello Giancarlo, le galline e il campanile lì vicino, convergono verso la sua arte, tutta concentrata su quello che si ha dentro e va tirato fuori. Il bene e il male, con in mezzo un’umanità, che difficilmente è capace di restare in equilibrio: i tempi cambiano, ma dentro di sé l’uomo è sempre quello. «L’arte può far del bene, a chi me lo chiede, a volte tiro fuori qualcosa. Sì qualcosa di bello. O di matto». Ridacchia. Poi si fa serio: «Anche cose brutte, tiro fuori anche quelle».
Tra odori antichi, circondato da quattro pareti completamente annerite dalla fuliggine, in mezzo a una piccola cucina che sembra ancora quella di sua madre, c’è un tavolo pieno zeppo di fogli di carta. Tra questi, Mario ne estrae tre: «Questo qui è un ragazzo, uno che ha avuto grossi problemi di droga. Sua mamma me lo mandava in cascina, io lo guardavo, osservavo i suoi occhi, mi confrontavo con quello che aveva dentro e lui, con la mia arte, prendeva coscienza di sé». Dei tre ritratti, abbozzati con la matita, uno è cupo, quasi uno sgorbio, gli altri sono più luminosi, con tratti più aperti. «È perché dopo un po’ di volte che veniva qui, questo ragazzo stava uscendo dalla dipendenza. Altri come lui, invece, non ce l’hanno fatta». I mali interiori da tirar fuori: malattia, disagio, sofferenza, dolori profondi diventano rappresentazioni, tra spazio e materia. “Tirar fuori”, per il Mario, non vuol dire immaginare, ma è sempre un confrontarsi sempre con gli altri, le persone, e con il mondo. E la sua sensibilità si esprime nel modo più alto, nel rappresentare la donna: sì proprio lui, che vive solo, è uno straordinario cantore delle donne: donne che soffrono e donne che amano. E ora che non è più un ragazzino, Mario da Corgeno s’interroga su quello che ci sarà dopo, guarda oltre il suo piccolo mondo, “verso l’immenso”, tende a un rapporto con Dio tutto suo, un rapporto nato dai pensieri semplici di una famiglia contadino e diventato più complesso, con il suo crescere, maturare e invecchiare confrontandosi con una verità e un mistero da “tirar fuori” anche da se stesso.
Nel cortile e tra le casette matte, scendendo verso il lago, dove planano cinerini e garzette, c’è il mondo del Mario, un atelier a cielo aperto: schivo com’è, difficilmente lo si vedrà di persona, ma la sua presenza la si avverte sempre. E, in ogni caso, ci sono le sue opere, ognuna con una storia, un dramma, un grido all’umanità, un invito a osservare il mondo con occhi diversi e a guardarsi dentro. C’è la sua arte che parla, provoca, pone domande ed è già un incontro.
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