Con 11 milioni di italiani in meno il futuro riserverà nuove sfide
Alla Liuc economisti, imprenditori, associazioni di categoria, statistici e comunità religiosa hanno affrontato il tema dell'inverno demografico italiano. Brugnoli vice presidente di Confindustria: "Senza giovani si andrà verso una forte automazione. Non è una scelta ragionata, ma una necessità"
Sarà stata la giornata fredda e piovosa, tutt’altro che primaverile, unita alla preoccupazione condivisa dai tanti relatori, ma mai è sembrato più azzeccato il titolo di un seminario come quello organizzato dall’università Liuc di Castellanza e dall’Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) Bustese, dedicato al declino della popolazione in Italia: “Chi abiterà la casa comune?”.
L’approccio multidisciplinare del seminario ha evidenziato un primo elemento importante. Per affrontare la complessità delle cause che hanno generato il cosiddetto “inverno demografico” italiano, e non solo, bisogna essere ben attrezzati. Un “metereologo” non basta. Ci vuole il contributo della statistica, in grado di evidenziare le tendenze future, dell’economia e della sociologia, per interpretare correttamente quei numeri e per trovare risposte adeguate. Occorrono uno sguardo e una azione etica, in grado di farsi carico della responsabilità del futuro nel lungo periodo. Insomma, preoccuparsene non basta, occorre occuparsene.
LIUC E UCID AFFRONTANO LA COMPLESSITÀ
Per uscire da questa stagione sarà determinante il ruolo della politica, delle istituzioni, compresa la Chiesa, dei corpi intermedi, dell’impresa e soprattutto della scuola.
Una complessità che Liuc e Ucid hanno declinato su più tavoli, coordinati dal rettore Federico Visconti e dalla professoressa Eliana Minelli. «Finalmente questo tema è diventato prioritario – ha esordito Gabriele Fontana, presidente dell’Ucid Bustese e della Valle Olona-. Quindici anni fa la Conferenza episcopale italiana (Cei,ndr) aveva dedicato uno studio importante all’argomento che però cadde nel vuoto. L’Italia è ormai diventato un caso paradigmatico, forse perché è migrata la speranza».
UOMINI O ROBOT? QUESTO NON È IL PROBLEMA
Il calo demografico è un tema strategico per il nostro Paese e i dati, purtroppo, indicano un consolidamento di questa tendenza. La natalità è al minimo storico e la mortalità ancora elevata: meno di 7 neonati e più di 12 decessi per 1.000 abitanti. «Lo scorso anno abbiamo avuto un saldo negativo molto importante tra morti e nuovi nati – ha spiegato Giovanni Brugnoli vicepresidente di Confindustria con delega al capitale umano -. Cresciamo troppo poco da tanto tempo, dinamica a cui non abbiamo mai dato una grande attenzione, perché avevamo un contributo suppletivo dato dai migranti che erano molto prolifici. Ora questo non sta avvenendo più e la mancanza di capitale umano mette in crisi la competitività delle nostre aziende».
Brugnoli ha affrontato con grande realismo la questione: se mancano giovani da impiegare nelle imprese italiane, bisogna andare verso una forte automazione. «Non è una scelta ragionata – ha chiarito il vicepresidente di Confindustria – ma una necessità, altrimenti non si può fare impresa».
A questo si aggiunge un secondo aspetto che riguarda la qualità dei giovani che entrano in azienda. «L’orientamento precoce – ha sottolineato il vice presidente di Confindustria nazonale – gioca un ruolo determinante, soprattutto tra gli studenti delle scuole medie inferiori».
Per quanto riguarda i migranti, Confindustria ha proposto al Governo di fare partnership didattiche con i paesi di provenienza in un’ottica economica, ovvero formare le persone prima del loro arrivo.
TENDENZE NEGATIVE
Per creare consapevolezza e quindi per capire dove stiamo andando, con quali conseguenze e quali azioni bisogna mettere in campo per affrontarle, bisogna avere un’oggettiva conoscenza dei dati statistici. Il professor Gian Carlo Blanciardo, già presidente dell’Istat, è partito dal mutamento della famiglia italiana. I dati dicono che sono in aumento i single, questo significa che tra vent’anni le persone anziane sole saranno numerose, e le famiglie del sud sono meno prolifiche di un tempo. Nel 2023 la media italiana si attesta a 1,24 figli per donna.
«Le previsioni dell’Istat – ha detto lo Blanciardo – indicano che fatto 100 le famiglie che nel 2021 hanno almeno un figlio piccolo, nel 2041 saranno 74, cioè si riducono di un quarto. Mentre aumentano le donne e gli uomini soli che salgono di un milione».
Pertanto ci sarà un problema di risorse se si vorrà garantire a tutti l’assistenza sanitaria e una qualità della vita adeguata.
LA METAMORFOSI DEMOGRAFICA ITALIANA
Il fenomeno della denatalità, secondo Blanciardo, trova le sue ragioni nella storia demografica del nostro Paese. L’Italia aveva 26 milioni di abitanti ai tempi dell’unità nazionale, 60 milioni e 300mila abitanti nel 2014, 58milioni e 850mila nel 2022. «Negli ultimi sette anni abbiamo perso un milione e mezzo di abitanti – ha commentato lo studioso – Non era mai successo prima che la popolazione non crescesse. I nati sono sempre stati di più dei morti, fino agli anni Novanta dove il saldo naturale era nullo. Ma a partire dal 2008 il numero dei nati ha cominciato a scendere e di anno in anno abbiamo “migliorato” questo record negativo. Se andiamo a vedere cosa accadrà da qui al 2070, noteremo che i residenti scenderanno a poco meno di 48 milioni, con una perdita progressiva di 11 milioni di persone, in un Paese dove il numero dei morti sarà due volte e mezzo quello dei nati».
CROLLA IL PIL E AUMENTA LA DOMANDA DI WELFARE
In questa situazione si porrà un problema di risorse lavorative, si ridurrà drasticamente il potenziale produttivo con conseguenze sul Prodotto interno lordo (Pil). Ci sarebbe «un esercito di riserva» da cui attingere, rappresentato da 5 milioni di persone che sono oltre l’età lavorativa, ancora in grado però di fare delle cose, «non di scaricare sacchi di cemento, ma di usare il cervello».
C’è poi un discorso da fare sul Pil, che in uno scenario del genere si ridurrebbe di 500 miliardi di euro. «Avremo meno risorse in un contesto dove aumenterà la domanda di welfare e sanità legata all’invecchiamento della popolazione – ha sottolinea Blanciardo -. E così, tra 40 anni avremo lo stesso numero di ottantenni e di giovani con meno di 20 anni, ovvero 7milioni e 800mila persone. Avremo 2milioni e 200mila persone con almeno 90 anni e 145 mila con più di 100 anni. Sono numeri che comportano un profondo cambiamento nelle relazioni e nel dinamismo di questo Paese».
Per invertire la tendenza, secondo l’esperto, si può iniziare a cambiare le condizioni di contesto, per far sì che i giovani non aspettino ad avere il primo figlio a 35 anni, ed eliminare gli ostacoli che impediscono ai giovani di realizzare le loro aspettative di potenziali genitori a partire dalla conciliazione dei tempi di vita e lavoro che condiziona molto la scelta o meno di mettere al mondo un figlio. Alcuni paesi europei, soprattutto dell’est – ma anche la Germania – hanno ripreso a crescere come popolazione.
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SERVONO NUOVE GRAMMATICHE EDUCATIVE
Nel quadro negativo italiano, la Lombardia è una delle regioni che più ha accelerato sulla denatalità. «C’è un problema culturale serio ha aggiunto monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della Diocesi di Milano -. Il nostro arcivescovo, Mario Delpini, ha sottolineato questa situazione in tre discorsi. In “Autorizzati a pensare” si è chiesto perché c’è il silenzio del pensiero in questa mancanza di futuro. Forse perché manca una regia e non si può certo andare incontro a un futuro senza imparare a leggerlo. Nel secondo passaggio ribadisce che “Tocca a noi tutti insieme” rimuovere gli ostacoli che impediscono la ripresa della natalità, in quanto la crisi demografica ha tanti protagonisti. Infine, nel terzo discorso, “E gli altri”, l’arcivescovo ci dice che la crisi demografica è anche il frutto di una proiezione ideale che ha semplificato il reale».
La Chiesa vive a sua volta una crisi, quella delle vocazioni e dei battesimi, che sono un riflesso diretto dell’inverno demografico. «Sono entrati in crisi i grandi modelli – ha spiegato don Bressan – Il cambiamento culturale ci ha reso afoni nei confronti delle grammatiche della vita. La casa comune sta cambiando i suoi spazi e noi in questa casa non ci sentiamo a nostro agio. È una questione antropologica e per affrontarla bisogna costruire grammatiche educative che siano all’altezza della sfida e che ci facciano dire che nella nuova casa c’è bisogno di uomini e donne».
UN FIGLIO CAMBIA LE NOSTRE ATTITUDINI
Le conseguenze della riduzione del tasso di fecondità totale vanno ben al di là dell’insostenibilità delle risorse e del sistema pensionistico. «Quando decidiamo di avere un figlio – ha sottolineato Valentina Rotondi, ricercatrice della Supsi di Lugano – cambiano anche le nostre attitudini che a loro volta trasformano la visione del futuro, l’economia e più in generale la società. Le attitudini hanno un impatto sull’innovazione, sui beni pubblici, sulle competenze e sulle virtù. E anche sul potenziale narrativo del nostro tempo: se non ci sono più i nipotini, i nonni a chi racconteranno le loro storie?».
Il tema del cambiamento delle nostre attitudini è centrale perché va a generare le azioni che le persone intraprenderanno come singoli o comunità per affrontare un determinato problema. «Quando per esempio, parliamo di cambiamento climatico – ha spiegato l’economista comportamentale – i dati italiani di ricerca su Google indicano che l’attitudine nei confronti di questo fenomeno, cresce meno di quella relativa alla pensione. Questo avviene perché le attitudini verso il futuro si concentrano nelle fasce più giovani della popolazione. È un problema, perché il cambiamento climatico richiede oggi un’azione da parte di tutti, serve perciò un collante intergenerazionale».
UNA SOCIETÀ VECCHIA È POCO INNOVATIVA
Una società con pochi giovani in genere è anche poco innovativa perché l’innovazione richiede menti proiettate verso il futuro, in grado di pensare out of the box, cioè fuori dagli schemi.
I genitori a loro volta hanno uno sguardo rivolto a ciò che sarà e dunque contribuiscono mediamente di più al sostentamento dei beni pubblici, rispetto invece a chi questo sguardo verso il futuro non ce l’ha, perché ha scelto la solitudine. «La storia ci dice che le società più innovative ed efficienti – conclude Valentina RoTondi – in termini di crescita del Pil e di riduzione della differenza salariale tra chi è più formato e chi lo è meno, sono quelle che in cui la distribuzione della popolazione per età è più equilibrata».
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