21 marzo 1945, il tragico bombardamento di Madonna in Campagna a Gallarate
A poco più di un mese dall'offensiva finale che segnò la fine della guerra il quartiere intorno alle officine ferroviarie Fs fu colpito d'improvviso. La memoria custodita dagli ultimi parenti

Sono passati ottant’anni da uno dei momenti più tragici – e insieme dimenticati – della Seconda Guerra Mondiale a Gallarate: il bombardamento del 21 marzo 1945, che colpì le case del quartiere Madonna in Campagna.
Furono sette le vittime di quell’attacco, a poco più di un mese dalla fine del conflitto che si sarebbe chiuso il 2 maggio successivo.
«Quel giorno morirono mia zia Valeria Ferè e mio nonno, Carlo» racconta Valeria Colombo, che della zia porta il nome. «Abitavano nella casa all’angolo tra via Pacinotti e via Pasubio, che fu colpita in pieno da una bomba».
Una singola bomba, tra le centinaia di migliaia che durante il conflitto furono sganciate sulle città, per colpire obbiettivi militari, industriali o per terrorizzare i civili e spingere i governi alla resa. Lo fecero tutte le parti in causa, perché allora colpire obbiettivi civili erano considerato pienamente legittimo (come per alcuni ancora oggi, ci insegnano i lutti di Kiev e Gaza).
Quel giorno gli aerei Alleati si presentarono alle 7.20 del mattino, all’improvviso, tanto che non fece in tempo a suonare neppure il “piccolo allarme” che annunciava le incursioni dei cacciabombardieri: “quattro apparecchi bimotori hanno sganciato bombe sulla città di Gallarate”, scriveva l’indomani la Cronaca Prealpina.
L’obbiettivo erano probabilmente le vicine officine Fs, dove si riparavano i treni elettrici a terza rotaia usati sulla linea Milano-Varese, che in quei mesi trasportavano anche da migliaia di sfollati fuggiti dai bombardamenti su Milano.
Come detto una delle bombe colpì una casa civile del quartiere di Madonna in Campagna, che allora era sostanzialmente formato dalle corti di famiglie operaie lungo viale Milano e da poche altre case intorno al santuario, oltre alle cascine sparse tra prati e campi.

Nell’edificio civile colpito dalla bomba trovarono la morte sette persone: Giuseppe Ferè, 62 anni; Valeria Ferè di 19; Giovanna Ferrario, di 23 anni; Loredana e Ivonne Pizzoni che avevano un anno, il padre Rosmundo Pizzoni, operaio e orfano di guerra; il pensionato 54enne Emilio Bellocchio. Quindici i feriti, di cui dieci ricoverati (uno con amputazione).

Non ci sono probabilmente più testimoni diretti di quel tragico giorno, sul finire della guerra scatenata cinque anni prima dal regime.
Non ci sono mai stati monumenti o targhe che ricordassero quei fatti: come in centinaia di altri casi, si voleva voltare pagina. La memoria rimase molto locale: ritagli di giornale testimoniano che ancora nel 1975, a trent’anni dal bombardamento, il parroco del quartiere di Madonna in Campagna celebrò una messa per le vittime dell’ordigno.
Oggi a farsi carico di portare avanti la memoria del bombardamento è Valeria Colombo, che abita ancora nella zona: «Io porto il nome di mia zia Valeria, che morì quel giorno. Mio fratello invece aveva come secondo nome di mio nonno morto quel giorno, Carlo».
I racconti di famiglia, insieme ai ritagli di giornale, consentono di tramandare alcuni dettagli di una storia personale: «Mia zia lavorava al Sironi maglificio, per il funerale le sue colleghe hanno fatto un vestito tutto bianco, come fosse sposa. Il Comune ci ha donato le cellette perpetue dove sono sepolti lei e mio prozio».
Le pagine della Cronaca Prealpina, qualche giorno dopo, ricordano un’altra particolarità di Valeria Ferè: era “entrata giovanissima nella attività cestistica cittadina”, giocava a basket.

Il cugino Giorgio Magnaghi aggiunge un altro dettaglio trasmesso in famiglia: «Abitando vicino, la zia Valeria a gennaio era andata a soccorrere i feriti sulla ferrovia» in occasione dell’ancor più sanguinoso episodio in cui – poche settimane prima – un treno passeggeri era stato mitragliato proprio all’altezza del quartiere di Madonna in Campagna. In quel caso la maggior parte delle vittime erano viaggiatori che venivano da fuori: milanesi, varesini, qualcuno dall’Alto Milanese (qui il racconto di una famiglia colpita).
Strage a Gallarate: il 20 gennaio 1945 mitragliamento e bombe sul treno da Milano
L’articolo sul bombardamento sulla Cronaca Prealpina – da un ventennio saldamente nelle mani del potere fascista – si apriva con la nota polemica “Le gesta dei liberatori”.
Una falsa, ipocrita indignazione, visto che anche gli italiani negli anni precedenti avevano usato lo stesso metodo su popolazioni civili di altri Paesi, da Barcellona all’Etiopia, da Londra alla Jugoslavia (va comunque specificato che l’attacco contro i civili allora era considerato legittimo da tutti i contendenti, da Guernica fino a Hiroshima e Nagasaki).
A distanza di ottant’anni è forse giunto il momento di ricordare, anche a Gallarate, l’orrore che la guerra – voluta dal regime nel 1940 – portò fino in casa, trascinando nel lutto le metropoli, le città di provincia, le campagne, i più piccoli paesi di montagna. Un orrore che ieri come oggi colpisce sempre anche i civili innocenti.
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